Trama
Nella periferia rurale di Gaza City una piccola comunità di contadini, la famiglia Samouni, si appresta a celebrare un matrimonio, la prima festa dopo la fine della guerra. Amal, Fouad, i loro fratelli e cugini hanno perso i loro parenti, le loro case. Il quartiere adesso è in fase di ricostruzione, si piantano gli ulivi e si lavora ai campi distrutti dai bombardamenti ma il compito più difficile è un altro: ricostruire le loro memorie.
Approfondimento
LA STRADA DEI SAMOUNI: LE NOTE DI REGIA
"Nel Gennaio 2009, durante l'operazione militare israeliana a Gaza sono riuscito a infiltrarmi nella Striscia attraverso la frontiera egiziana, per realizzare un diario filmato di quei giorni di guerra che poi è diventato il mio film Piombo fuso. Il 20 gennaio, in seguito alla ritirata dell'esercito israeliano, ho potuto raggiungere il nord della Striscia e la città di Gaza dove sono entrato in contatto con la famiglia allargata dei Samouni, una comunità di contadini, sino ad allora sopravvissuta miracolosamente a 60 anni di conflitti e occupazioni, che si confrontava per la prima volta con una tragedia senza precedenti. Ventinove dei suoi membri, donne e bambini per la maggior parte, erano stati uccisi da un’unità d'élite dell’esercito israeliano; inoltre le loro case e i loro campi erano stati completamente distrutti. Avvenimenti drammatici che sono stati in seguito l'oggetto di un’inchiesta dell'ONU, il rapporto Goldstone, e di una commissione d'inchiesta dell’esercito israeliano che ha riconosciuto l'errore militare.
Ho iniziato a filmare i Samouni immediatamente, nel gennaio 2009. Ma sin dall'inizio non ho avuto alcun dubbio: il mio film non si poteva ridurre al mero rendiconto del massacro, al compianto sulla tragedia o alla denuncia di un’ingiustizia. Le televisioni e i giornali del mondo intero in quei giorni dopo la fine della guerra stavano già offrendo al mondo in ogni più macabro dettaglio il racconto di quella tragedia, mentre i principali partiti politici di Gaza, da Hamas alla Jihad Islamica, provavano in tutti i modi ad appropriarsi di quei lutti per la loro propaganda. Ma una volta che le televisioni sono andate via e i funerali terminati, i Samouni sono restati soli. Iniziava per loro la fatica più ardua: ricomporre le ferite fisiche ed emozionali tra le rovine delle loro case, in un territorio dove i confini sono ermeticamente sigillati.
In quel momento continuando a filmare la famiglia, con la quale ero diventato nel frattempo sempre più intimo, ho cominciato a chiedermi come in queste condizioni estreme potessi raccontare al meglio quella storia, attraverso quale percorso narrativo avrei potuto affrancarmi dai cliché mediatici e politici sulla Palestina, frutto di sessant'anni di semplificazioni progressive. Come andare oltre il grido di disperazione dei sopravvissuti e all'esposizione 'iconica' della tragedia e del corpo dei martiri? Cliché applicati a Gaza dalla retorica politica e religiosa dominante, che continua a rappresentare i Palestinesi come un tutto indistinto, una folla opaca e piangente di fantasmi, vittime o sopravvissuti, che null'altro hanno da offrire alla Storia se non il proprio martirio o quello dei loro cari e che, così facendo, anche nella vita restano prigionieri della morte; la tragedia di un popolo che non raggiungerà mai l'eloquenza narrativa che solamente l’imprevedibile varietà, le contraddizioni, le peripezie delle vite individuali possono avere.
Sin da queste prime riprese, la risposta a questi miei interrogativi è venuta dagli stessi Samouni, e specialmente dai giovani protagonisti che ho iniziato a seguire giorno per giorno.
Le loro parole e i loro ricordi hanno iniziato lentamente a ricostruire il ritratto di un'antica comunità contadina indipendente e composita, da cui emergevano le diverse personalità dei vivi e dei morti. Evocare il tessuto socio-economico del quartiere, parlare delle relazioni interne alla famiglia allargata, evidenziare le affinità e le divergenze di opinioni dei suoi componenti, diventava immediatamente, per me come per i protagonisti del film, un modo per destrutturare quel processo di uniformazione, di negazione delle specificità individuali inaugurato dai missili israeliani e dalla propaganda di Hamas e amplificato dai media internazionali: il racconto dei Samouni esclusivamente come vittime o sopravvissuti. La loro storia collettiva era ricca e complessa, piena di contraddizioni interne, di corti circuiti e di svolte inaspettate. Dovevamo quindi raccontare le loro straordinarie esperienze umane molto al di là degli avvenimenti drammatici di 2009.
Da allora, mi sono dato il tempo di ricostruire la storia dei Samouni da più lontano possibile. Volevo rendere giustizia alla singolarità di queste donne e questi uomini, alla loro saga familiare, al loro desiderio di indipendenza e alla loro tenacia.
Quando sono tornato a Gaza nel 2010, appena un anno dopo il passaggio dei bulldozer dell'esercito israeliano, i Samouni erano già riusciti a recuperare una parte dei loro campi, a trasformare una distesa di macerie e di terra rossa in un quartiere fertile e verdeggiante.
Malgrado le immense difficoltà pratiche, esasperate da un embargo asfissiante, i Samouni erano per la maggior parte sopravvissuti allo shock esistenziale provocato dalla tragedia e alle sue pesanti ricadute ideologiche.
Non ho percepito un’uniformazione ma delle risposte ai drammi assolutamente personali, reazioni differenti al dolore, tentativi coraggiosi di mantenere il pensiero e le parole lontani dalla necrofilia jihadista che doppia dall'interno l’assedio militare israeliano e contribuisce alla paralisi della società a Gaza.
Nel frattempo i partiti politici, e specialmente la Jihad islamica, si muovevano attorno ai Samouni nel tentativo, per lo più mancato, di sfruttare la loro aura di "martiri". Nell'ostinato tentativo di salvaguardare la propria indipendenza e svincolarsi da logiche di assistenzialismo la maggior parte dei membri della famiglia aveva persino rifiutato la tessera di rifugiati dell'ONU, che avrebbe garantito loro razioni alimentari e aiuti economici.
Avevo davanti a me delle persone che provavano a ribellarsi al "simbolo" che erano diventati, persone che si accanivano nei dibattiti, che s'infervoravano per la politica, per le loro scelte di vita o semplicemente per come piantare una lattuga; personalità diverse in nessun caso riducibili a un ritratto univoco. I Samouni sono lo specchio vivente di una società complessa che merita di essere raccontata.
Il film segue prevalentemente i giovani Samouni, bambini, adolescenti o giovani sposi, e i loro cari. Questi giovani protagonisti vivono in costante dialogo con il passato, un grande aiuto per tener testa alle sfide della vita attuale: un dialogo con il passato restituito nel film dalla relazione tra immagini documentarie e sequenze animate.
Il "presente", la vita attuale dei protagonisti del film, è tuttavia imprescindibile dalla loro memoria, resa attraverso l'animazione, e in particolar modo attraverso lo sguardo e i ricordi di una bambina. Amal, che con i suoi fratelli Fuad e Faraj, le cugine Mouna e Shifa, incarnano una generazione le cui vite stavano per crollare nel 2009 ma le cui radici affondano nel passato, nell'esistenza tutto sommato tranquilla a cui la comunità era abituata e in una concezione del mondo ereditata dai genitori, morti durante l'attacco.
Le animazioni ricostruiscono i ricordi di questa vita antecedente l'attacco, di tutto ciò che è stato distrutto, il quartiere, le sue case e i suoi frutteti, mentre riportano alla vita i membri carismatici della famiglia morti durante il massacro.
L'universo visivo e la tecnica del graffio su carta di Simone Massi, direttore artistico delle animazioni del film, riesce a coniugare un impressionante realismo con un'elevata capacità di resa del mondo metamorfico della memoria e del sogno.
Ciascun disegno sembra faticosamente emergere dall'oscurità, prender vita su una lavagna immaginaria. Ciascun disegno è un'opera unica, frutto di ore di lavoro, ciascun minuto il risultato di settimane di impegno e per questo, alla fine, ha qualche cosa di imprevedibile, esattamente come un ricordo che riaffiora. Quanto di più prezioso.
Per rendere possibile la realizzazione delle sequenze animate, abbiamo affiancato a Simone Massi una squadra di animatori che ha assimilato e reinterpretato la sua tecnica. Inoltre, ciascuna sequenza è stata innanzitutto realizzata in 3D. Era essenziale per me che il film ricostruisse precisamente e quasi «archeologicamente» un quartiere davvero esistito, questo paradiso perduto di cui parlano i protagonisti del film, con i suoi frutteti, le sue case, la grande moschea.
Occorreva inoltre che i personaggi fossero riconoscibili e realistici nella loro versione «animata». Per questo motivo con il gruppo di artisti digitali, oltre al quartiere dei Samouni, abbiamo ricostruito il modello 3D dei visi e dei corpi dei protagonisti stessi del film.
Un processo lungo che mi ha successivamente permesso di concepire la messa in scena delle sequenze animate, grazie alla verità restituita da questi modelli virtuali. Abbiamo creato e filmato delle sequenze animate in 3D che sono poi state ridisegnate da Simone Massi e dagli animatori 2D tradizionali.
Questo processo complesso e laborioso, nel quale Simone Massi e la squadra di animatori si impadronivano delle sequenze 3D e le rielaboravano a mano, disegno a disegno, ha permesso che il risultato finale, piuttosto che riflettere meccanicamente, freddamente, solo tutto ciò che io avevo potuto immaginare, assomigliasse molto di più a quel caos vitale e pieno di sorprese che la realtà mi regala quando giro un documentario. Nella tecnica di Simone Massi, come nel documentario, esiste una forte componente aleatoria che permette di creare coniugando le intenzioni e il caso, le aspettative e la realtà in divenire.
I modelli 3D sono serviti anche a ricostruire le immagini dei droni militari – il punto di vista su ciò che è accaduto nel quartiere così come riportato dall’inchiesta dell'esercito israeliano condotta nel 2010.
Con questo film ho deciso di raccontare la storia della famiglia Samouni dall'interno, dal centro di questa comunità contadina e nel luogo che da essa prende nome. Viviamo la storia al fianco dei protagonisti, attraversando insieme a loro i campi che da sempre coltivano, i loro uliveti e i loro ricordi. Siamo posti come loro, di fronte a scelte e a circostanze che mettono a dura prova i loro valori e il loro modo di vivere. Assistiamo all'assidua lotta di una piccola comunità per preservare la propria identità e uno spazio, tanto sottile quanto prezioso, di libertà".
Note
Alternando sequenze di documentario e di animazione (realizzate da Simone Massi), seguendo il filo dei ricordi, il documentario racconta un ritratto di famiglia prima, dopo e durante i tragici avvenimenti che hanno cambiato per sempre le loro vite.
Trailer
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- Premio giuria ecumenica al Festival di Cannes 2018
Commenti (1) vedi tutti
Il disegno a graffi di Massi scompare, occupa 42 minuti del totale e sta nel cuore della pellicola, animazione agghiacciante sia quando la scena trabocca di un bianco e nero inchiostro che rifiuta ogni colore, sia quando la finzione dello schermo di un drone ci cala dentro un’immagine virtuale , un video game in cui si spara su uomini veri.
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