Regia di Chris Sun vedi scheda film
Il filone degli animali assassini, l’animal attack movie, non è propriamente un ecovengeance, è un filone orrorifico con codici propri, un’iconografia e una modulazione narrativa riconoscibili per la loro vicinanza al modulo fiabesco. Più o meno riusciti, più o meno dozzinali, molti invece sono veri e propri capolavori del cinema, gli animal attack movie sanno sempre affascinare ed intimorire allo stesso tempo perché portano sul grande schermo la rappresentazione di un’ancestrale lotta tra uomo e natura, mai rimossa e mai dimenticata. Non è un caso che gli animali più gettonati del genere siano anche quelli che incutono più timore perché simboli di ben altro (squali, serpenti e coccodrilli su tutti). Si difendono bene anche i grossi predatori terrestri come lupi, leoni, orsi, tigri, e addirittura i cani si conquistano il quarto posto come animali più utilizzati in questo filone. Il nuovo millennio ha però portato alla ribalta un animale che da sempre la cultura contadina ha identificato come nemico. Nemico dei campi, delle coltivazioni, delle greggi e anche delle persone: il cinghiale.
Nel Novecento solo una pellicola l’ha utilizzato come motore narrativo del terrore: Razorback (Russel Mulcahy, 1984), un capolavoro di idee, originalità e resa visiva. Se escludiamo Daddy’s Deadly Darling (Marc Lawrence, 1973), la cui trama è abbastanza simile a Eaten Alive (Tobe Hooper, 1976), solo che al posto del coccodrillo che fa sparire i cadaveri del vecchio e pazzo locandiere Neville Brand, abbiamo i maiali di uno psicopatico allevatore che li utilizza per far sparire i cadaveri delle vittime di una sua amica appena fuggita dal manicomio criminale, non esistono altri titoli su cinghiali o maiali assassini fino al nuovo secolo. Nel giro di quasi vent’anni ne vengono prodotti e distribuiti ben sei. Non pochi se pensiamo che altri animali ben più rappresentativi del genere si sono fermati a quasi una decina di titoli dell’intera loro filmografia.
Il cinghiale è tornato anche a far parlare di sé nella cronaca locale. I casi di attacchi agli umani, anche mortali, aumenta: Iseo 2015, Cefalù 2015, Ankang, 2018 oppure incidenti causati da questi animali quando attraversano le strade come a L’Aquila sempre nel 2015 o più recentemente nel vigevanese, per non dire, citando Lawrence e Hooper, del caso della donna marocchina uccisa e smembrata nei boschi nei pressi di Valeggio sul Mincio sperando che i cinghiali ne facessero sparire le prove (gennaio 2018). La verità va detta però fino in fondo. Che il cinghiale sia un animale pericoloso questo è risaputo, e come tutti gli animali, orsi e uomini compresi, diventa aggressivo e fatale quando è in pericolo la vita dei cuccioli. E fin qui nulla di nuovo, ma vanno fatte alcune considerazioni. Innanzitutto, per incrementare la caccia al cinghiale là dove l’animale non era autoctono sono stati introdotti cinghiali slavi, di struttura e biologia differenti alla specie italiana che ibridandosi hanno generato specie più resistenti e più aggressive. Inoltre, se i cinghiali, come altri animali selvatici, si avvicinano ai centri abitati è perché l’uomo, nella sua inciviltà, sporca così tanto che gli animali trovano più facilmente il cibo. Anche perché, sempre a causa dell’uomo che non ne vuole sapere di smetterla di consumare territorio occupando sempre più spesso gli spazi vitali delle specie selvatiche, queste non sanno più dove andare e cercano così cibo altrove, ovvero vicino ai centri abitati. E ne trovano parecchio. Più mangiano, più si riproducono. Vale anche per gli esseri umani. Ecco spiegato il forte incremento. Se questo non bastasse pensiamo anche all’ignoranza di chi crede di circoscrivere la piaga dei cinghiali con numerose battute di caccia. Sicuramente qualche individuo perirà, ma la maggior parte si sparpaglierà dando vita a più piccoli branchi che a loro volta, per sopravvivere, dovranno cercare altre zone, altro cibo e aumenteranno nuovamente. Con la caccia sconsiderata, i cinghiali aumentano.
Questo scenario che sembra non avere una soluzione, può ben essere comune a ogni latitudine del mondo e aver ispirato titoli come Pig Hunt (James Isaac, 2008) esplosiva caccia al cinghiale anarchica, comica e splatter, Chaw (Jeong-won Shin, 2009) calco preciso di Jaws (Steven Spielberg, 1976) senza però nessuna idea mitologica di uguale carica immaginifica, Proie – La traque (Antoine Blossier, 2010), riuscitissimo film in cui cacciare cinghiali voraci alterati geneticamente implica anche citare il culto mitraico e innervare la storia di una serie di personaggi, tra loro fratelli, capaci di essere ben più feroci dei cinghiali a cui danno la caccia, Dead Stop (Jonas Stolpe, 2011), classica storia horror senza precisi riferimenti spaziotemporali e sottotesti criptici, dove la creatura mangiauomini è un mostro sputato dall’oscurità, Hogzilla (Diane Jacques, 2014), che porta sullo schermo il leggendario ibrido tra cinghiale e animale domestico, una delle più recenti mostruosità del folklore redneck statunitense.
Infine arriva Boar, diretto da Chris Sun nel 2018, a confermare come questa “bestia nera” della tradizione popolare di ogni paese a vocazione contadina sia lungi dallo scrollarsi di dosso le leggende e la pessima fama, molto spesso legittimata dalla cronaca, che l’uomo le ha attribuito. Però, Boar è un film australiano e credo che sia più facile vedere in questa operazione la volontà di attualizzare il mito di Razorback a più di 30 anni dalla sua uscita. Per farlo, il regista di film abbastanza riusciti e dal solido tratto horror rurale come Come and Get Me (2011), Daddy’s Little Girl (2012) e soprattutto Charlie’s Farm (2014), prende il mito dell’horror australiano di oggi, John Jarratt, l’inquietante volto di Bill Moseley e li mette a lottare contro un gigantesco e spropositato cinghiale australiano, che non è altro che un inselvatichimento del maiale europeo importato dagli inglesi nel 1788 con la celebre Prima Flotta. Un maiale che ha dovuto adattarsi a un clima sconosciuto e inospitale di cui è diventato presto il maggior predatore terrestre dopo il dingo, dato che squali e coccodrilli marini sono predatori prettamente acquatici.
L’idea di partenza quindi non è male. Da un lato abbiamo il ricordo del capolavoro di Mulcahy, dall’altro l’icona di John Jarratt che per l’occasione diventa un Mick Taylor dal cuore buono, e dall’altro lato ancora abbiamo un tema attuale che sconfina sia nella politica ambientale che nel fascino misterioso delle leggende locali. Purtroppo Chris Sun non riesce a cogliere appieno l’essenza dell’animal attack movie. Nel suo film ben poco viene lasciato all’immaginazione, nonostante il grosso bestione crudele appaia a bocconi come lo squalo di Spielberg, e tutto appare piatto e senza peso immaginifico. Non ci sono scene che salvano l’intero film, come succedeva in Rogue (Greg McLean, 2007), si applaude giusto il mostro quando si porta via il pompato Hugh Sheridan, ma è una scena posticcia, come quasi tutto il film.
Non si discutono i paesaggi, ovviamente, e il tentativo per lo meno di aver voluto girare un killer boar movie, anche se l’inverosimiglianza del gigantesco cinghiale, dotato pure di intelligenza umana e di inventiva che certo non lo avvantaggia nella resa primitiva e terrificante della classica minaccia animale – altro errore evidente anche in Rogue – è troppo plateale ed esagerata per poter risultare accettabile anche ai meno puristi del genere.
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