Regia di Wanuri Kahiu vedi scheda film
Film coraggioso che porta per la prima volta sullo schermo una storia lgbt proveniente dal Kenya. Coloratissimo e sgargiante alla maniera africana, con una storia che ad un avvezzo occhio occidentale può sembrare troppo debitrice ai "cliché" del genere, ma che per il pubico keniota deve invece rappresentare una dirompente novità.
Non si può iniziare una recensione su Rafiki senza omaggiare il coraggio dimostrato dalla regista Wanuri Kahiu, dalle protagoniste Samantha Mugatsia e Sheila Munyiva e da tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo film, che porta per la prima volta in assoluto uno spiraglio cinematografico sull’esistenza delle persone lgbt in un Paese, il Kenya, dove l’omosessualità è ancora reato e chi non è eterosessuale si scontra con aggressioni, discriminazioni e limitazioni quotidiane alla propria libertà, tanto che la stessa pellicola è stata bandita nel Paese, per essere poi provvisoriamente autorizzata dall’autorità giudiziaria, per un breve lasso di tempo, grazie al successo ottenuto all’estero, alla partecipazione al Festival di Cannes (Un Certain Regard) ed alla possibilità di inserirsi nella cinquina per il Miglior Film Straniero agli Oscar.
In un ghetto alla periferia della capitale Nairobi, la protagonista Kena è un “maschiaccio” che trascorre il suo tempo libero a giocare a calcio ad andare in giro con lo spasimante senza speranza Blacksta, pur manifestando insofferenza per l’omofobia espressa dai ragazzi locali. Il padre, piccolo negoziante del quartiere è anche candidato ad una carica locale alle imminenti elezioni. La vita irrisolta di Kena subisce uno scossone, personalmente inebriante, ma socialmente pericoloso, quando scocca la scintilla con Ziki , una ragazza carismatica e di famiglia benestante, che, ironia della sorte, è pure la figlia del rivale politico del padre. Il loro affetto, animato da sogni di evasione dalla soffocante realtà del loro Paese, fornirà non poco carburante alle lingue lunghe delle pettegole dello slum.
La regista fa un lavoro molto stimolante dal punto di vista visivo, ricco di quei colori sgargianti così tipici della cultura africana, dalla tonaca porpora vermiglia del prete ai vestitini ed alle trecce coloratissimi di Ziki, dalle luci rosa fluo della discoteca del primo ballo insieme, ai panni stesi che squarciano il grigiore della triste periferia.
Se la tenera storia ad un pubblico occidentale, ormai abituato a qualche decennio di cinema lgbt, può sembrare tutto sommato convenzionale e punteggiata dai “cliché” del genere più che da spunti originali, bisogna invece considerare che agli occhi il pubblico kenyota si tratta di novità assolute, una prima occasione in cui le emozioni e le difficoltà dell’amore tra due ragazze vengono raccontate sul grande schermo
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