Regia di Nadine Labaki vedi scheda film
Festa del cinema di Roma – Alice nella città.
Nonostante possa apparire come una dichiarazione di rito, non fa mai male ricordare quanto i bambini rappresentino il futuro, non per niente Stephen King scrisse che gli adulti imparano a morire, mentre i ragazzini a vivere. Così, solo permettendo loro di crescere nel migliore dei modi, lasciando assaporare il gusto dell’infanzia e accompagnandoli con i giusti insegnamenti, è possibile ambire a una società migliore. Non ci vuole un genio per capire che, purtroppo, il più delle volte gli interessi vertono al presente, alla sopravvivenza e talvolta già arrivare al giorno successivo rappresenta un piccolo successo.
Considerazione tanto più vera e stridente in aree disagiate, come quelle affrontate da Nadine Labaki in Cafarnao, un’opera di rara capacità comunicativa, con un enorme potenziale consciamente stemperato da un largo ricorso a eccessi, che un autore integro non avrebbe mai consentito.
Nato e cresciuto nella miseria, il dodicenne Zain (Zain Al Rafeea) abbandona la sua famiglia dopo aver visto consegnare sua sorella, poco più grande di lui, a un adulto per farla diventare sua moglie.
Sulla sua strada incontra una giovane africana che lo accoglie, ma anche questa volta dovrà fronteggiare palesi ingiustizie, ritrovandosi da solo con il neonato della donna. Quando avrà di fronte a sé l’opportunità di fuggire in Svezia, dovrà decidere se approfittare dell’occasione o lottare per proteggere quegli affetti da poco conquistati e scoperchiare l’abuso di cui sua sorella è stata vittima.
Fin dal suo squillante esordio da regista (Caramel), la radiosa e caparbia Nabine Labaki ha messo in chiaro il suo modo di intendere le emozioni, un taglio del linguaggio che il successivo E ora dove andiamo? non ha fatto altro che plasmare in altre forme. In Cafarnao l’esposizione diventa perfino viscerale, fino a esplodere e abbattere qualsiasi forma di ragionevole supervisione.
L’impostazione della vicenda avvicina il contemporaneo Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-eda - entrambi premiati a Cannes 2018 (a Cafarnao è andato il Premio della giuria) -, con il focus concentrato sui bambini, costretti da una situazione di estremo degrado, così come da una società che si muove alle spalle della legge e del buon senso, a prendere anzitempo in mano le redini del loro destino per non essere piegati o stritolati.
Anche qui, il futuro non si regala, semplicemente perché non sono contemplate scelte multiple, ma la costruzione, dopo aver fabbricato un poderoso e prolungato duetto tra Zain e un neonato, si sfilaccia tra i più disparati additivi, impiegati per esercitare un’azione di captatio benevolentiae. Nel dettaglio, le sottolineature sono sempre più urlate ai quattro venti e vengono utilizzate molteplici forzature, che discostano dalla ragione per elevare il livello di sdegno e prima ancora colpire al cuore, con una retorica della commozione che divora famelicamente il resto del menù. In tal senso, non aiutano né il versante carcerario né quello processuale, soprattutto la bellezza sporcata, che imperversa per buona parte del film, finisce annientata quando la linea del traguardo si avvicina.
In questa fase risolutiva, Nabine Labaki dà letteralmente i numeri, agisce scopertamente e stressa la prospettiva di Zain, fino ad approdare a una tavolata di conclusioni dai sapori stridenti, ossia di grande effetto, ma anche frutto di una rischiosa esacerbazione.
Per tutti questi motivi, Cafarnao è un film arrembante ma anche dissennato, con scampoli di una bellezza disarmante e pillole ricattatorie, che su queste dicotomie sussiste, stabilendo un incontrovertibile ponte emotivo e deprimendo al contempo la sua appartenenza al cinema del reale.
Straripante, al punto di rischiare di frastornare.
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