Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
L’ultima opera di Jafar Panahi sembra ripartire da dove il regista ci aveva lasciati con Taxi Teheran; si rimette alla guida di un auto e ci porta nei meandri dell’animo umano, attraverso le montagne rocciose della provincia di Teheran, alla ricerca di una ragazzina disperata che insegue il sogno di diventare attrice e trova il contrasto della famiglia, chiusa nel materialismo di una vita priva di stimoli, laddove le fantasie vengono etichettate come il male della mente e del vivere.
Il racconto di Panahi si svolge attraverso l’uso di inquadrature fatto di primissimi piani, almeno per la prima parte della pellicola, dove i protagonisti compaiono in scena come se fossero su un palcoscenico, uno alla volta, per poi comporre un cast ristretto ma intenso.
La differenza con la realtà è talmente sterile che finisce per confondere lo spettatore e l’impressione che si ha ad un certo punto è che si perda il filo del discorso, senza mai prendere realmente coscienza di quello che ci vuole essere raccontato.
E’ chiara l’intenzione della morale, fin da subito, che cerca di esporre le speranze che animano le vite di uomini accomunati da una vita semplice, colma di fede e della convinzione di un futuro che possa essere migliore. E proprio mentre gli uomini auspicano una vita migliore per i propri figli, consegnando prepuzi a padrini che ritengono migliori di loro solo perché hanno la possibilità di “fuggire” in città, le donne finiscono per essere sempre rappresentate come un’appendice del maschio a cui si legano, costrette ad un’esistenza volta solo all’attesa della morte, rappresentata in modo palese in una delle scene più belle dell’intero film.
Ma a volte non basta limitarsi a raccontare per consentire allo spettatore l’immedesimazione. Soprattutto quando lo si fa attraverso un racconto lento e molto introspettivo, caratterizzato da poche parole e troppe immagini. Quando si tratta di realtà così distanti da noi, servirebbe almeno avere una sceneggiatura forbita, che renda giustizia al valore del contesto rappresentato.
Anche se il film di Panahi possiede la poesia delle pellicole indipendenti che pochi riusciranno a vedere, quella sorta di magia che sembra avvolgere le immagini che vediamo, lascia addosso allo spettatore un senso di irrisolto che finisce per sminuire ciò che si vede e perdere coscienza di tutto quello che si è visto fino ad allora, fino ai titoli di coda, lasciando addosso davvero poco.
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