Quest’ultimo bel film di Jafar Panahi, che si muove ancora in auto per raccontare il suo amatissimo e con lui molto ingrato Iran, è un on the road singolare, come il precedente Taxi Teheran (2015). Probabilmente gli è stato più facile, ora, maneggiare la leggera e minuscola telecamera digitale per le riprese, spostandosi a bordo di un fuoristrada, durante il viaggio avventuroso in compagnia della popolare attrice televisiva Behnaz Jafari, che qui interpreta se stessa, come lui, che è insieme il regista, lo sceneggiatore, nonché il principale attore del film. Il percorso, nel Nord-Ovest iraniano, si era rivelato presto molto difficile, lungo l’unica strada, poco più di un sentiero sterrato, che segue tortuosamente i dossi del terreno costringendo le auto a passare una alla volta, dopo una complessa segnaletica a colpi di clacson. Quella stretta via di passaggio, attraversata da grotte, anfratti e sentieri laterali, costituisce l’indispensabile collegamento dei villaggi sperduti nel territorio compreso fra Azerbaigian, Armenia e il confine orientale della Turchia anatolica, quasi un’enclave iraniana*, popolata da famiglie musulmane, turcofone, organizzate secondo un’arcaica e radicatissima tradizione patriarcale.
L’occasione (pretestuosa?) del viaggio era arrivata attraverso un video-messaggio indirizzato, da quella landa selvaggia, al cellulare di Behnaz Jafari. Era il disperato grido di dolore di Marziyeh Rezaei, giovane aspirante attrice, che forse aveva raccontato in presa diretta il proprio suicidio alla diva famosa, nella speranza che desse almeno visibilità alla denuncia seguita ai troppi inutili tentativi epistolari di avvicinarla perché la introducesse nella carriera per la quale aveva studiato con ottimi risultati a Tehran. Il messaggio era drammatico e insieme ricattatorio: le immagini si interrompevano bruscamente, lasciando intendere la più tragica delle conclusioni, mentre inquietudine, rabbia e vaghi sensi di colpa si alternavano nell’animo di Behenaz Jafari che, abbandonando il lavoro si era messa in strada per cercarla, accompagnata da Panahi, come sempre in incognito.
Magnifico l’esordio di questo film, quasi un invito alla sobrietà dei mezzi: per costruire la magia del cinema non servono davvero macchinari costosi e sofisticati. Un cellulare, col suo stretto formato rettangolare era stato sufficiente per rappresentare il dramma di una donna; un’invisibile telecamera, leggerissima e molto facilmente spostabile, sarebbe riuscita a farci conoscere un intero universo.
Qui, Panahi ci affascina davvero, raccontandoci, senza intenti documentari, un mondo immerso nella sua realtà arcaica e favolosa, attraverso i tipi umani che incontra, ascoltando le loro storie con cordialità paziente e gentilezza d’animo, pronto a coglierne la varietà, l’ aspetto straniante del loro inconscio paganesimo, impermeabile al monoteismo della fede musulmana dichiarata e alle conoscenze fornite dalla scuola.
Compaiono ai nostri occhi le indimenticabili immagini del toro nero vecchio e malato, adagiato con la sua mole enorme lungo la strada, assistito dal suo padrone in attesa che un fantomatico veterinario gli restituisca la focosa sessualità che lo aveva reso redditizio per lui e popolarissimo fra le mucche, che ne percepivano il richiamo e rispondevano col muggito dal fondo della vallata; o quelle del dono speciale con fiocchi e preghiera, (glielo porta la divertita Behnaz), del prepuzio di un neonato appena circonciso, da offrire, in qualche tempio lungo il percorso di ritorno, a una benevola divinità che vegli e protegga la vita del piccino. Ovunque il rito del te è il segno dell’accoglienza ospitale, è l’invito difficile da rifiutare. Su tutto, lo sguardo di Panahi demiurgicamente ricrea, con mano sicura e mezzi poverissimi, la poesia delle favole antiche. Le donne, purtroppo chinano, il capo, servono gli uomini devotamente e attendono la morte: un’anziana vi si sta preparando con serenità giacendo, al cimitero, nella propria bara per qualche ora ogni giorno e pregando. A quelle che hanno studiato non resta che la fuga, il ritorno alla città, che ancora una volta Panahi è pronto a registrare riprendendolo col suo infallibile sguardo. Un film incantevole, poetico, indimenticabile e ovviamente da vedere.
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