Regia di Gavin Lim vedi scheda film
Far East Film Festival 20 – Udine.
Nel momento in cui il sipario sul futuro si prepara a calare definitivamente, anche le scelte definibili come estreme non sono viste con l’usuale distacco e repulsione, ma vengono prese in considerazione. Non essendoci più nulla da perdere, può essere siglato ogni sorta di patto, senza soppesare nel dettaglio le conseguenze.
In una società deviata e priva di scrupoli, c’è il rischio di finire male in arnese, trovandosi di fronte il diavolo fatto uomo.
Dopo aver scoperto di avere un cancro in fase terminale, Johnny (Sunny Pang) accetta di prendere parte a un programma sperimentale che cela un inganno, rivelandosi una copertura per coprire altri fini.
Così, finisce ingabbiato come un animale rabbioso e drogato, in modo tale da scatenare istinti ferini, da riversare su un ring, in incontri di lotta clandestini che terminano regolarmente con la morte di uno dei due contendenti.
Alla prima occasione utile, Johnny si ribella, cominciando una caccia spietata per ottenere vendetta.
Uno scenario umano lugubre e deviato, una spinta verso l’autodistruzione, immagini grezze e battute lanciate a caso in una composizione che dei dialoghi non sa cosa farsene.
Preso atto della volontà espressa dal regista Gavin Lim, Diamond dogs non è tanto inquietante per la parabola verso l’inferno, che disegna senza fare attenzione ai tratti, anche quelli più banali, quanto per la bassezza della messa in scena.
Rinculare in un b-movie in salsa exploitation può essere accattivante e permette di non fare troppo i pignoli, ma a tutto c’è un limite, oltre il quale è caldamente sconsigliato avventurarsi.
Dunque, Diamond dogs getta nella mischia una sadica violenza e gli aggiunge dosi di sesso, anche sadomaso e condotto fino a conseguenze letali, ma è davvero troppo scomposto e scarsamente reattivo per instillare una qualsiasi forma di godimento, fosse pure semplicemente di forma morbosa.
Aggiungiamoci una reiterata e sollazzante battuta sul cinema d’autore, nella fattispecie su Tsai Ming-liang, inserita - of course - a casaccio (il problema è questo e vale per gran parte del film), schizzi di sangue talmente irrealistici da lasciare esterrefatti (indegno anche per un film amatoriale realizzato da un gruppo di ragazzini) e tutta una gamma di connessioni irrisorie, che qualsiasi ulteriore considerazione – ammesso che si riesca a trovare – finisce incastrata in un angolo che l’occhio non riesce a catturare, forse nemmeno a individuare.
Un film che non si sa da quale parte prendere, che getta alle ortiche il suo eventuale potenziale - una società che inghiottisce chi è in difficoltà, disturbi mentali indotti, la catarsi di chi non ha futuro - prendendosi troppo sul serio, fino a precipitare nel vuoto più totale, senza nemmeno tentare di aggrapparsi a un piano b.
Insostenibile, ma solo per la pochezza della sua realizzazione (e lo script riesce nell’impresa di essere peggiore della messa in scena).
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