Regia di Beom-sik Jeong vedi scheda film
A che stadio è giunto, nel 2018, il carattere puramente fantasmatico del web, specie con tutti i nuovi formati social con cui il mondo si tiene in contatto e si mostra a se stesso in tutte le sue più svariate forme? Ci aveva mostrato un livello di questo Sickhouse di Hannah McPherson (2016), tutto costruito con frammenti di video da Snapchat. Adesso, Gonjiam – Haunted Asylum, in World Premiere al Far East Film Festival 20, affronta un nuovo livello di impercettibile fantasmatico, puntando l’attenzione sul “video in diretta”, che ha spopolato nel web nel 2017. L’horror found footage tiene sempre d’occhio tecnologie come queste, specie se offrono nuovi interrogativi agli occhi dubitanti degli spettatori contemporanei. Dunque è questa volta il turno di una mattanza sudcoreana quella di inserirsi autonomamente nel suo mattatoio, in questo caso uno dei 7 luoghi più spaventosi del pianeta per la CNN, l’ex ospedale psichiatrico di Gonjiam. Il rischio sembrava quello di ripetere esperimenti falliti come Haunted Changi di Andrew Lau (2010) o il più celebre Grave Encounters dei Vicious Brothers (2011). Ma Jeong Beom-sik riesce a prendere le distanze da questi due scomodi e scadenti precedenti (e da svariati altri) facendo sì che il suo film sia sì una mattanza, ma di immagini e di immaginario ancor più che di corpi. Un gruppo di ragazzi appassionati di paranormale e detentori di un canale YouTube che offre esperienze horror nelle loro più svariate forme (in VR, per esempio), fanno partire, la notte del 26 ottobre, un video in diretta dal manicomio abbandonato di Gonjiam, in cui – si dice – la direttrice, impazzita, avrebbe in passato sterminato tutti i suoi pazienti, che tornano di notte sotto forma di fantasmi vendicativi. L’ambientazione e il soggetto sono pretesto, come quasi sempre anche nei found footage più raffinati, per raccontare di un nuovo livello di paranoia postmoderna legata al voyeurismo e all’invadenza dello sguardo. 6 dei 7 ragazzi protagonisti entrano nel manicomio armati di tutto punto di cineprese, go-pro, luci, fari, steadycam, che diventano praticamente protesi, escrescenze (in)organiche di materia filmica che rendono conto del loro operato tramite le loro imperturbabili immagini – come in Sorgoi Prakov di Cherkaski. Al comando del gruppo, un “Capitano”, che sta alla postazione computer, li segue e monta in tempo reale quanto filmato dai ragazzi per proporlo agli spettatori sempre più curiosi – compresi inquietanti replay, tenere a mente Skew di Schelenz. L’orrore è ricercato e incoraggiato dai giovani protagonisti, allo scopo di raggiungere il fantomatico milione di visualizzazioni. E più ci si addentra in un orrore fatto di rumori, stanze vuote, porte cigolanti e ghost spots di ombre e oscurità, più gli spettatori aumentano, a rinverdire un limbo di coscienze osservanti che, ferme a guardare online le avventure sconvolgenti dei protagonisti, diventano esse stesse fantasmi, occhi senza vita, pronti a farsi intimorire. Che siano forse loro i fantasmi dei matti del manicomio? Il dio dello spavento è in Gonjiam il dio della drammaturgia e della finzione, ma niente ha a che vedere con le intenzioni delle forze malefiche presenti nel manicomio, pronte presto a neutralizzare gli invasori confondendone la percezione. Tra punti di vista impossibili, skews che allungano e deformano spaventosamente i volti, un montaggio squilibrato e l’esplosione iperbolica dei cliché e delle icone (si sprecano le citazioni, sempre costruttive, a The Blair Witch Project di Myrick e Sanchez e a Ringu di Nakata), Gonjiam è un trattato di found footage al passo coi tempi, una lezione di jump scares disonesta e encomiabile al contempo, in grado di dare un nuovo non-volto al fantasma dello sguardo e della paura. Infatti in Gonjiam è fantasma qualsiasi cosa: sono fantasmi i protagonisti (specie nel finale che cita splendidamente As Above So Below di Dowdle), sono fantasmi i fantasmi veri e propri (visibili solo tramite le telecamere), siamo fantasmi noi spettatori, testimoni di un montaggio impossibile che potenzialmente costruiamo noi stessi come su un canale interattivo. Gli occhi inquietanti che setacciano e deformano gli spazi e il reale non sono più quelli delle videocamere; sono i nostri occhi terribilmente umani.
Già pubblicato su www.allblogandnoplay.com
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