Regia di Orson Welles vedi scheda film
VENEZIA 75 - FUORI CONCORSO/EVENTI SPECIALI
Gestazioni pachidermiche, quasi bibliche.
La difficoltà di portare a termine un'opera cinematografica è sempre stata una costante nella cinematografia di Orson Welles. Regista immenso, ed "attore per forza", ovvero per necessità, per esigenze di cassa, coinvolto grazie alla fama e ad un carisma leonino molto opportuno per adattamenti di personaggi spesso forti o sopra le righe, in centinaia di pellicole, anche di basso valore artistico, al solo fine di poter racimolare proventi che potessero permettere al grandissimo maestro di portare a conclusione le sue regie.
A volte ci riuscì, altre volte proprio per nulla, e la filmografia, tutt'altro che sterminata, da regista che costella un arco di vita non breve, ne fornisce la conferma puntuale.
Con "The other side of the wind" meno che mai Welles riuscì a portare a compimento il suo progetto, e ciò nonostante quella mente d'autore avesse pressoché accumulato una quantità di materiale girato, da produrne, a livello di durata media, almeno una quarantina di lungometraggi.
Certo non ci si può esprimere solo in questi termini meramente quantitativi, temporali, statistici: con Welles è il concetto geniale che sottosta' ai suoi progetti, che spesso trova una difficoltosa capacità di sintesi e di elaborazione di una conclusione, se non plausibile, almeno lontanamente comprensibile.
Qui l'autore in fondo gira il suo film più maledettamente autobiografico che mai, riuscendo - con una pertinenza clamorosa - a parlarci di un sé medesimo opportunamente reso da un altro personaggio potente, cinematograficamente, scenograficamente e mentalmente: un altro grande uomo di cinema degno della statura di Welles: John Houston, pure lui attore carismatico più per strategia e circostanza, che per vero interesse, spesso pure lui utilizzato al fine di dar risonanza a cast mediocri di film ancor più dimenticabili, ma con qualche ambizione di fondo.
Perfetto dunque, lo Houston anziano, rugoso, scorbutico ed affascinante, per interpretare J.J. Hannaford, regista maledetto di ritorno a Hollywood dopo un esilio volontario in Europa, alle prese con le complicazioni frenetiche di questa sua ultima opera, complessa e sbrindellata, ma di cui il carismatico vecchio pare detenere saldamente dentro di sé i segreti per uno sviluppo coerente, che permetta ai montatori di assemblare tutto quel materiale entro un contesto plausibile, o almeno comprensibile per essere proposto ed accettato da anche solo una fetta elitaria di pubblico.
Geniale, incredibile pare dunque il film nel film: la pellicola finta che diagnostica di fatto i problemi concreti di quella vera, quasi come a mettere le mani avanti, rivendicando la necessità di arrivare ad una conclusione, qualsiasi essa sia.
Impossibile o quasi scendere in ulteriori dettagli: meglio lasciarsi prendere dal delirio di un montaggio scatenato (onore al merito agli autori che grazie a Netflix hanno potuto metter mano ad una matassa complessa come poche), che cita se stesso, e denuncia col sarcasmo più potente le bassezze ed i sotterfugi di un mondo di compromessi come quello della produzione cinematografica. Uno scenario impossibile ed inestricabile per i caratteri "sani" e incorruttibili che non sanno scendere a compromessi ed arrendersi al diktat di chi ha i soldi per poter ultimare il progetto.
Non resta che abbandonarsi alle immagini stupefacenti ed intriganti, sessualmente esplicite ove la bellezza aggressiva di Oja Kodar - compagna ultima di Welles - diviene simbolo di qualcosa di misterioso e pericoloso, ma inevitabilmente attraente.
Di più penso di non essere in grado di riferire a proposito di un film che riesce a dirci tutto, ma senza raccontarci nulla di concreto: dunque, proprio per questo, un'opera di genio senza paragoni.
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