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Hold the Dark

Regia di Jeremy Saulnier vedi scheda film

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La recensione su Hold the Dark

di munnyedwards
4 stelle

Sono sempre stato incuriosito dai film ambientati in contesti naturali estremi, che sia il gelido spazio dell’Antartide, l’arido deserto del Messico o qualche foresta equatoriale sperduta chissà dove, alla fine non fa molta differenza, e così spulciando il catalogo di Netflix mi sono imbattuto in questo Hold the Dark, che sulla carta presentava una trama (e una ambientazione) decisamente interessante.

Siamo a Keelut, un paese immaginario sperduto nel territorio dell’Alaska, in realtà una decina di baracche nel bel mezzo del nulla, un bambino scompare e la madre Medora Slone (Riley Keough) sostiene che ad ucciderlo sia stato un branco di lupi, secondo lei altri due bambini hanno fatto la stessa fine, la polizia non cava un ragno dal buco e la donna contatta l’esperto di lupi Russell Core (Jeffrey Wright) che decide di aiutarla.

Arrivato sul posto l’uomo si rende subito conto che la situazione è molto più complessa di quello che immaginava, ad aggravarla ulteriormente il ritorno dall’Iraq di Vernon Slone (Alexander Skarsgard), che informato della morte del figlio perde completamente la testa.

 

hold-the-dark-wolves

Primo approccio per quanto mi riguarda con il cinema di Jeremy Saulnier, i suoi due film precedenti Blue Ruin e Green Room hanno ricevuto considerazioni piuttosto positive ma io non ho avuto occasione di vederli, ho recuperato invece, apprezzandola molto, la terza stagione della serie antologica True Detective, dove il regista firma alcuni episodi.

Dopo questa breve premessa arrivo subito al punto, sono molte le cose che non funzionano in Hold the Dark ma quella che più mi ha infastidito è il suo prendersi tremendamente sul serio, il suo porsi in modo sfacciato come opera “di contenuto”, quando in realtà oltre alla buona confezione non ha nulla da offrire.

Detto molto semplicemente, due ore di film per sviluppare una storia volutamente criptica che non porta da nessuna parte, diverse le tematiche trattate ma tutte in modo dispersivo e inconcludente, tante le frecce all’arco di Saulnier ma nessuna che giunge a bersaglio.

La crudeltà di una natura selvaggia e le fragilità umane, il branco di lupi come metafora di una famiglia disconnessa e malata, i nativi americani annichiliti e dimenticati, i figli unica speranza per il futuro ma anche pesanti zavorre da sacrificare, la leggenda di un demone lupo che porta alla pazzia, le maschere di legno a indicare il ritorno ad una forma primordiale, la violenza della guerra e la rabbia di un popolo oppresso, e via di questo passo in un orgiastico accumulo di temi che non trovano soluzione.

Tanta la carne al fuoco ma l’impressione è quella di trovarsi di fronte a nulla più di un semplice e furbetto esercizio di stile, Saulnier sa muovere la macchina da presa ma ha grandi difficoltà nel dare forma concreta (un disegno, un percorso) alla sua storia, dopo una prima parte che incuriosisce e lascia ben sperare il film cede ad un ritmo più riflessivo, che è solo l’anticamera di una noia mortale.

Con fatica si arriva a quello che dovrebbe essere uno dei momenti clou, ma la sequenza della sparatoria stride fortemente in un contesto che fino a quel momento si era alimentato di realismo e verosimiglianza, non può esserci nulla di credibile in trenta poliziotti incapaci di colpire un uomo che spara dall’alto e senza riparo, dando per scontato che quell’uomo non sia una versione pellerossa di John Rambo.

 

a man looks down the eye piece of a gun

a man wears a wooden wolf mask in hold the dark

 

Mentre ci raccontano di personaggi confusi che si muovono senza reali motivazioni la cosa più interessante resta l’ottima descrizione di uno scenario naturale, fortemente opprimente nella sua desolata e dispersiva vastità, ma è troppo poco per tenerci incollati ad una vicenda il cui senso resta aleatorio, un bambino morto e una madre in fuga, il padre che impazzisce e la insegue, il naturalista che si getta nella mischia senza un vero motivo, il poliziotto buono che fa tenerezza per quanto è stereotipato.

In questa sua forma eccessiva e compiaciuta di ermetismo, che procede senza esitazioni fino a giungere ad un finale che invece di un elefante partorisce il prevedibile topolino, Saulnier decide di prendere le distanze anche dal testo originale (l’omonimo romanzo di William Giraldi), che sembra opera decisamente più diretta oltre che esplicativa nella descrizione del complesso rapporto dei coniugi Slone.

Non che questa eventuale “rivelazione” cambiasse poi di molto le carte in tavola, gli indizi lanciati allo spettatore ci portano comunque verso questa direzione, ma di certo non risolvono i molti problemi del film, che a mio avviso resta un lavoro pretestuoso e inefficace.

Alcuni lo hanno accostato a I segreti di Wind River firmato da Taylor Sheridan e uscito un anno prima, in effetti ci sono alcuni elementi di contatto ma fondamentalmente le storie sono diverse, o meglio, il film di Sheridan ha una storia che procede in modo coerente e che trova uno sviluppo logico, quello di Saulnier propone un simulacro di storia, un’illusione che lentamente sfuma lasciandoci con un palmo di naso.

Come ripete più volte il personaggio di Medora Slone ci sarà purequalcosa di sbagliato nel cielo dell’Alaska, o nel buio fuori dalle finestre che arriva e si impossessa di te”, ma questo qualcosa resta un mistero per tutti, anche per Saulnier.

Voto: 5

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