Regia di Paul Greengrass vedi scheda film
Una storia vera, avvenuta in Norvegia il 22 luglio 2011, la strage nell’isola di Utoya in un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese
Anders Behring Breivik è un nome che sarebbe rimasto sconosciuto per l’eternità se non fosse quello di un trentaduenne che compì una strage orrenda, di quelle che nei film horror di quarta categoria fanno il pieno di incassi al botteghino.
E purtroppo la sua è una storia vera, avvenuta in Norvegia il 22 luglio 2011, la strage nell’isola di Utoya in un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese, preceduta nello stesso giorno dall'esplosione di un'autobomba col bagagliaio imbottito di ANFO nel centro di Oslo.
Sull’isola morirono 69 giovani tra i 14 e i 20 anni e gli assistenti, altre 8 vittime caddero in città, il bilancio finale fu di 77 morti e decine di feriti.
In una ricostruzione puntuale di quella giornata, nella prima parte del film Paul Greengrass apre con un montaggio alternato che prepara la mattanza.
Ai preparativi fatti con millimetrica precisione da Breivik nella casa-laboratorio alla periferia di Oslo dove abita con la madre, fa da contrappeso l’allegro sciamare dei ragazzi che arrivano in battello sull’isola e trascorrono le prime ore spensierati.
La tensione cresce in modo esponenziale, sappiamo cosa accadrà, quella strage di sette anni fa nessuno l’ha dimenticata, eppure seguiamo l’avanzare della tragedia con la tipica sospensione della credulità che il cinema induce anche quando si tratta di storia vera.
L’arrivo di Breivik sull’isola travestito da poliziotto, la guardia fin troppo bassa tenuta dalle misure di sicurezza e la folle fuga dei ragazzi terrorizzati, inseguiti da questo portatore di morte, tutto si consuma in un lungo piano sequenza che è la cosa migliore del film.
La seconda parte è meno stringente, pur non mancando di buona regia nel dosare i piani,i movimenti di macchina, la precisione del racconto aderente al libro di Asne Seierstad, Uno di noi, storia di un superstite.
E’ l’after day di chi si è salvato, di chi ha riportato danni che gli condizioneranno la vita, e raccontare tutto questo non è facile. Non è facile neppure portare sulla scena il terrorista, farlo parlare, prendere atto del suo odio, della sua lucida follia.
C’è stato chi l’ha fatto in modo assolutamente insuperabile, e non parliamo di quel capolavoro che è Elephant di Van Sant.
La figura di Breivik è più vicina al Marc Lépine di Polytechnique di Villeneuve, con tutte le differenze che corrono fra i due, distanti venti anni l’uno dall’altro.
Ma il confronto con Villeneuve è improponibile, 22 July è solo un buon prodotto che ottiene un sicuro plauso per il valore documentario, riuscendo a calarci nel dipanarsi di una follia tragica con la forza delle immagini che non lasciano nulla alla fantasia.
Se lo sviluppo delle vicende legate al ragazzo superstite e alla sua famiglia avrebbe richiesto maggiore sintesi, dobbiamo comunque riconoscere l’intento sociale del film e la capacità di trasmettere con forza un orrore che dai notiziari inevitabilmente scompare.
Il superamento del trauma e il processo di normalizzazione del paese dopo l'attentato appartengono ad un finale in cui la figura dell’imputato emerge e fa riflettere sui processi di condizionamento criminale messi in atto da uomini e agenzie che usano la rete per destabilizzare, alterare le coscienze, creare mostri.
Sulla dichiarazione rilasciata da Breivik in tribunale vale la pena di meditare in tempi in cui la deriva populista rischia di innescare metastasi criminose in un corpo sociale reso debole da scarsa cultura democratica.
Il trentaduenne affermò di aver agito per mandare un "messaggio forte al popolo, per fermare i danni del partito laburista e per fermare una decostruzione della cultura norvegese causata dall'immigrazione in massa dei musulmani".
Breivik dichiarò di essersi pentito solo di non aver fatto più vittime, lui intendeva sradicare il ceppo dei futuri leader del partito democratico, uomini e donne che avrebbero condotto all’islamizzazione della Norvegia.
Come ha ricordato Paul Ricoeur, per cui il dovere di memoria procede assieme all’elaborazione del lutto, le ferite della memoria sono assieme solitarie e condivise.
“Dobbiamo accettare il fatto che ci sia dell’irreparabile nei nostri beni, dell’inconciliabile nei nostri conflitti, dell’indecifrabile nei nostri destini. Un lutto compiuto è la condizione di una memoria pacificata e, in tale misura, felice”.
Per quanto risulti difficile, allora, le ferite vanno sanate, è necessario, ma ugualmente necessario è non dimenticare la violenza non raggelando lo sguardo, rendendolo sempre attivo.
E il film di Greengrass ci riesce.
www.paoladigiuseppe.it
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