Regia di Paul Greengrass vedi scheda film
Regista di action drama, Paul Greengrass (a eccezione dei capitoli della saga dedicata a Jason Bourne e dell’esordio con La teoria del volo), ha sempre diretto opere tratte da fatti realmente accaduti (del resto, si è formato nel mondo del documentario) e, in particolar modo, attentati terroristici. Ha quasi una specializzazione in materia: si è occupato di Irlanda in Bloody Sunday, dell’attentato di uno dei voli dirottati durante l’11 settembre in United 93, della storia in Iraq dell’ufficiale Roy Miller in Green Zone e del sequestro in acque somale di un cargo danese in Captain Phillips. Lo ha fatto interrogandosi sempre sulle ragioni e sulle conseguenze della violenza messa in scena. Seguendo tale macabra strada, in 22 Luglio ha scelto di mostrare cosa è accaduto solo qualche anno fa, nel 2011, in Norvegia quando Anders Breivik, a sua detta un cavalier templare chiamato a difendere la purezza dell’Europa, ha organizzato due differenti attentati che sono costati la vittima a 77 persone.
Greengrass pesca dalle pagine dei giornali e da un libro pubblicato da Åsne Seierstad (con il titolo Uno di noi) per imbastire tre differenti linee narrative, che ci forniscono altrettanti punti di vista sulla vicenda.
La prima si sofferma sulla figura di Breivik e sul processo che si terrà a Oslo, in grado di calamitare l’attenzione pubblica nazionale e non solo. L’operato di Breivik è mosso innanzitutto da convinzioni sociali e politiche di estrema destra e ha come scopo ultimo quello di negoziare con il Primo Ministro le leggi inerenti a un ipotetico blocco dell’immigrazione e del multiculturalismo. Da templare formatosi online con il mondo dei videogiochi, Breivik conduce la sua personalissima crociata avallata da una dichiarazione di indipendenza scritta di suo pugno. L’esplosione al quartiere governativo della città prima e l’eccidio sull’isola di Utoya dopo occorrevano nella sua logica per eliminare la classe dirigente e coloro che sarebbero divenuti i futuri governatori. Per farsi difendere e rigettare l’accusa di incapacità di intendere e volere, chiama alla difesa l’avvocato Geir Lippestad, che volente o nolente deve far rispettare il codice penale del suo Paese e garantire all’assistito ogni diritto in fase processuale.
La seconda linea narrativa ha al centro il Primo Ministro Jens Stoltenberg, sfuggito illeso dalla prima esplosione. Subito attivo nel prendere controllo della situazione, Stoltenberg si ritrova a dover gestire da un lato i rapporti con il Paese, profondamente scosso e prossimo alle elezioni, e dall’altro lato un’indagine di una apposita commissione su ciò che il suo governo ha sbagliato nel prevenire gli attentati. Messo sotto accusa per la mancanza di fondi da destinare alla sicurezza e per aver preso sotto gamba una segnalazione sullo stesso Breivik, riceve il supporto dei parenti delle vittime che non hanno nulla da rimproverargli.
L’ultima linea ha al centro i sopravvissuti del massacro a Utoya, in particolar modo i fratelli Viljar e Torje, due adolescenti che come tanti coetanei avevano preso parte al campus estivo organizzato dalla Lega dei Giovani Lavoratori (AUF). Mentre Torje, il minore dei due, non ha riportato alcuna ferita da arma da fuoco, Viljar è stato colpito per ben cinque volte da Breivik, presentando una situazione clinica alquanto complessa. Alcune schegge della pallottola che gli è esplosa in testa si sono conficcate vicino al tronco cerebrale e non possono essere rimosse: in termini pratici, se si spostassero, potrebbe morire da un giorno all’altro. Dimesso, Viljar affronta una lunga e difficile riabilitazione, sostenuto dai genitori (in particolar modo dalla madre, il sindaco di un piccolo centro a 2 mila chilometri dalla capitale), dal fratello e da un’altra sopravvissuta.
Le tre sequenze appaiono tra loro però in disequilibrio. Guardando l’opera di Greengrass si ha l’impressione che il regista abbia voluto giocare con i generi, lasciandosi prendere la mano da alcuni e trascurandone altri. La macrosequenza inerente a Breivik, cominciata nel segno dell’adrenalina e della paura come in action tratto da un videogame, lascia presto spazio al dialogo tra l’arrestato e il suo difensore per il più classici dei legal drama. Mettendo sul tavolo le conclusioni psichiatriche a cui sono giunti gli esperti, Breivik appare come vittima di se stesso e di una costante solitudine che lo accompagna dal giorno che, da piccolo, è stato abbandonato dal padre. L’approfondimento psicologico è lasciato al non detto e sarebbe stato interessante vedere meglio la dinamica tra il mostro e colui che, per difendere il mostro, mette a repentaglio la sua stessa famiglia. Così come sarebbe stato interessante capire a fondo le ragioni politiche del suo gesto: superficialmente, durante il processo si dà parola al leader di un movimento estremista online ma non si va alla radice dell’odio. Si paventano minacce future e scenari di guerra contro i nuovi saraceni ma non si va al di là dei dialoghi da trasmissioni populiste. Greengrass poteva farne un film politico ma si ha quasi la sensazione che non abbia voluto prendere posizione, che sia rimasto in una sorta di limbo. Prova ne è anche il trattamento che riserva alla linea narrativa con il Primo Ministro protagonista: accennata, raffazzonata e superficiale. Non sappiamo nulla della Norvegia: necessitiamo di informazioni extra per capire in che contesto operi o quale sia la sua agenda di governo. Si tralascia la figura dei reali (forse perché ancora sul trono?) e non si accenna a come influiscano sulla vita politica.
Contrariamente alla prima, la terza macrosequenza inerente a Viljar prende il sopravvento. 22 Luglio si trasforma così in uno dei tanti, troppi, film visti sul protagonista che sopravvive alla tragedia rinascendo. La riabilitazione di Viljar coincide con un cambio repentino di atmosfere: le sequenze che potrebbero essere quelle di un medical drama, con tanto di camera che mostra dettagli tecnici e carni aperte dal bisturi, lasciano spazio al survival drama, con tanto di protagonista impegnato a superare le sue paure, i suoi incubi, i suoi timori e i suoi nuovi handycap puntando su ciò in cui crede di più: famiglia, amicizia, sogni, speranze e futuro. Quasi marginale è il travaglio interiore del fratello minore Torje così come figure di contorno sono i genitori, anche se si tenta un paragone su ciò che deve essere una mamma mostrando spesso le differenze tra la madre dei due fratelli e quella di Breivik.
Film poco riuscito quindi? No, dannatamente no. Greengrass sa come modellare le storie reali per incantare il pubblico e tenerlo inchiodato.
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