Regia di Joon-Hwan Jang vedi scheda film
Far East Film Festival 20 – Udine.
Sarà che oggi – almeno per noi occidentali – la democrazia è data per inviolabile e pure scontata, ma in nessun caso è un dono piovuto dal cielo. Dietro la sua conquista campeggia il sacrificio, annegato da sangue e lacrime, di uomini e donne che hanno messo il bene comune davanti alla loro stessa vita.
Solo agendo spronato dalla massima devozione alla causa, il popolo può arrivare a detronizzare chi detiene biecamente il potere, uomini che hanno tagliato qualsiasi ponte di collegamento con la morale e certamente non intenzionati a lasciarsi abbindolare dalla prima rappresaglia.
Corea 1987, sotto il controllo del regime militare. Uno studente universitario è interrogato sotto tortura fino a morire dalla sezione della polizia che si occupa di stanare chiunque abbia comportamenti considerati ostili verso gli organismi di potere. Immediatamente, il governo si muove per eliminare ogni traccia dell’accaduto, ma un procuratore non mangia la foglia, mettendo in azione un ingranaggio che attacca un sistema opaco, intenzionato a utilizzare ogni mezzo possibile per mantenere il suo status.
La rivolta popolare è dietro l’angolo.
Al terzo film in quindici anni di carriera, Joon-Hwan Jang (Save the green planet, Hwayi: A monster boy), sceglie di passare dalla parte del rigore, per raccontare i tumulti avvenuti in Corea nel 1987, poco tempo dopo i fatti narrati in un altro film del 2017, ovvero quel A taxi driver scelto dalla Corea del Sud per la rincorsa – poi fallita – alla conquista del premio Oscar per il miglior film straniero.
Già al primo approccio, fa subito chiarezza sulla lealtà e sincerità delle intenzioni, descrivendo con meticolosità e intensità il casus belli che portò alla rivolta sociale nel cuore della Corea, richiamando in gioco la quasi totalità delle personalità coinvolte.
Un prologo corposo che incardina tutti i paletti al loro posto, per srotolare successivamente i fatti storici, opportunamente romanzati per aumentare l’immedesimazione, lavorando prima di tutto sulla definizione dei personaggi, tra chi fa i suoi calcoli per non perdere una posizione di rilievo e vede nella repressione la soluzione per spegnere l’incendio sociale, e chi, iscrittosi dall’altra parte della barricata, compromette cariche ambite o addirittura rischia la vita senza riserve, perché di fronte alle ingiustizie è vietato abbassare la testa e ancor meno è tollerabile stare al tavolo di gioco sbagliato solo per la convenienza del momento. Proprio grazie al coraggio e a una devozione integerrima, comuni cittadini possono arrivare a far inceppare un meccanismo disposto su più livelli, sfuggevole a un controllo puntuale e con tanti pesci grossi pronti a divorare chiunque invada il loro acquario, favorendo il montare dell’indignazione.
Una progressione che 1987: When the day comes immortala sciorinando fondamentali cristallini e automatismi oliati in modo tale da mantenere sempre fluida l’esposizione, caratteristiche proprie di un assetto solido e puntuale.
Semmai, questa scansione potrebbe essere imputata di avere un range qualitativo oltre la media, ma con pochi picchi da riportare ai posteri. Per questo viene comunque in aiuto l’atto finale, che trasmette una concitazione e un senso di comunitaria ribellione che tracimano definitivamente quando si sovrappongono con il materiale d’archivio, avvicinando umanamente chiunque abbia a cuore i valori democratici.
Un buon – e classico – modo per calare il sipario tra scroscianti applausi, chiudendo un lavoro costruito con attenzione, anche per il modo di comunicare, brillante e appagante quanto basta per rinsaldare il canale diretto aperto con il pubblico.
Stimolante e appassionante, un documento riconoscente a chiunque abbia contribuito a scardinare sistemi di potere politico deviati su traiettorie lontane dai reali interessi della popolazione, riscrivendo la storia della giustizia sociale. Non solo in Corea.
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