Regia di Jennifer Kent vedi scheda film
Western femminista degli antipodi con intenti programmatici dichiaratamente attuali ed universali: la strisciante violenza che attraversa un consorzio umano fondato come sempre sulla discriminazione etnica, sulla violenza di genere e sulle sperequazioni sociali. Bellissime locations tasmaniane e struggenti ballate tradizionali irlandesi.
Messasi sulle tracce del tenente Hawkins e dei suoi scagnozzi, la giovane Clare è decisa a vendicare la terribile violenza subita dall'ufficiale, compresi il brutale assassinio del marito e di una figlia ancora in fasce. Nel viaggio attraverso l'impervio bush tasmaniano troverà il sostegno e il conforto di una giovane guida aborigena, dal quale sembra dividerla una sprezzante ostilità etnica ma con cui condivide l'umiliazione di una dolorosa subalternità e l'atavica avversione verso il dominatore inglese.
La donna, il nero, il bush...
Se il filone sembra quello di un western femminista degli antipodi, per di più insulare e desolato della più estrema propaggine australe del dominio coloniale inglese agli inizi del XIX secolo, non ci si inganni; gli intenti programmatici a detta della sorprendente regista di Brisbane sono invece quelli diachiaratamente attuali ed universali della strisciante violenza che attraversa un consorzio umano fondato come sempre sulla discriminazione etnica, sulla violenza di genere e sulle sperequazioni sociali; una etologia del comportamento umano insomma in cui analizzare, in una sorta di laboratorio virtuale della rappresentazione cinematografica, gli adeguamenti reciproci di gruppi vissuti per troppo tempo nella cattività di una remota colonia penale dell'era georgiana e nella quale ciascuno di essi (gli aborigeni decimati impegnati a non estinguersi, i prigionieri irlandesi in cerca di riscatto ed i coloni inglesi in cerca del massimo profitto) sembra chiuso nella strenua difesa corporativa che vede quello che lo precede come della genie di reietti da sfruttare senza ritegno e quello che lo segue della stirpe dei padroni con cui venire a patti. Al di là dello schematismo antropologico che sottende questa tesi e che viene costantemente alimentata da una escalation di violenza e brutalità che non risparmia proprio nessuno (donne, negri, fanti e infanti), il livello di realismo raggiunto da una messa in scena di accuratezza ambientale splendidamente fotografato è quello di un cinema d'avventure e d'impegno civile che non le manda a dire, forte di una narrazione che fa della strenua epica dell'uccellino del titolo (del film e della ballata) quello di una poetica della resilienza che si ascriva di diritto alla fiera storia del popolo irlandese da sempre oppresso dallo scomodo vicinato e di riflesso a quella di una popolazione autoctona che si era preservata sparuta ma persistente nei precedenti otto millenni di storia insulare. Il gore che si era risparmiata nell'originale horror psicologico dell'esordio (The Babadook), tutto allusioni e rimandi edipici, non viene certo lesinato in questo revenge movie d'autore in cerca di effetti shockanti (le note di produzione parlano di consulenze psicologiche sul set, non si sa se per alimentare l'effetto da Actors Studio o come supporto all'emotività del cast) e nel quale la deriva melodrammatica di una solidarietà fra reietti risulta in una prevedibile concessione alla retorica narrativa del cinema hollywoodiano; il che per una produzione indipendente australiana orgogliosamente femminista e composta tutta da donne (scrittura, regia, produzione e attrice protagonista) segna il prevedibile compromesso di un film generosamente accolto dalla critica e premiato sul più nostrano lido lagunare con le statuette per Jennifer Kent (Premio Speciale della Giuria) e per il bravissimo Baykali Ganambarr (Premio Marcello Mastroianni come miglior attor giovane).
...En un buschetto se mise ad andare;
Sentì l'ozletto sì dolce cantare.
Oi bel lusignuolo, torna nel mio brolo.
Oi bel lusignuolo, torna nel mio brolo.
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