Regia di Jennifer Kent vedi scheda film
VENEZIA 75 - CONCORSO - PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a JENNIFER KENT - PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a Baykali Ganambarr
Nel primo ventennio del XIX° secolo, una giovane irlandese orfana, arrestata tempo addietro per cause non esattamente precisate, viene inviata al confino in territorio australe, presso lo sperduto avamposto di una colonia inglese.
In loco, negli anni trascorsi in quella sparuta comunità di europei fuori casa, la donna è riuscita a rifarsi comunque una vita con onestà e perseveranza, sposando un laborioso immigrato, e ripagandosi la possibilità di tornar completamente libera, prestandosi a fare da cameriera ad uno sprezzante ufficiale inglese, stanziato in loco a comandare la guarnigione a prrsidio della colonia.
Una giovane, la nostra protagonista, che viene anche utilizzata come cantante ed intrattenitrice, grazie alla gradevole voce da "usignolo" (come da titolo) nelle occasioni campali sfruttate per rallegrare l'atmosfera da campo ai militari sottoposti alle fatiche dell'arma lontano da casa.
Ma la posizione ricattatoria del giovane ufficiale, che circuisce la ragazza apprezzandone le piacevoli fattezze, e promettendole in cambio dei suoi favori sessuali, la liberazione dal vincolo che ancora la lega con la giustizia, sfocera', proprio a seguito del diniego fermo della donna, in una serie di episodi di violenza tragici, sia ai danni della ragazza, sia ancor più definitivi e cruenti, nei confronti dei suoi familiari (marito e figlia infante).
Non rimarrà che lasciarsi prendere da un senso di vendetta come tentativo di riscatto, che trasformera' la ragazza da una preda inerme e succune della situazione, a belva ferita, pericolosa e da non sottovalutare: col cavallo del marito e un aborigeno esperto nel seguire le tracce utilizzato come guida, la giovane si metterà sulla pista dell'ufficiale e dei suoi efferati complici partiti nel frattempo per raggiungere il nuovo incarico ottenuto dall'ambizioso militare.
La tragedia consentirà alla donna di entrare in contatto con l'altrettanto tragica situazione a cui sono costretti gli indigeni locali, relegati alla condizione di animali da fatica e giustiziati al primo cenno di ribellione.
C'era un'attesa fremente, qui a Venezia 75, per l'unica opera in Concorso diretta da una regista donna, considerato anche che Jennifer Kent è nota da tempo per le sue ferme ed incondizionate prese di posizione in fatto di discriminazione femminile e disparità di opportunità tra i sessi al cinema, come in molti altri aspetti e settori del vivere sociale e professionale odierno.
E la regista di Babadook, a cui molto si può recriminare, ma non certo che non sappia girare e organizzare con estrema professionalità la parte tecnica del suo lavoro, si fa prendere qui dalla tentazione irrinunciabile di suscitare clamori, di istigare la folla, di strumentalizzare una problematica seria ed attuale ora più che mai, anche, ma non solo, sulla scia dei gravi episodi occorsi e denunciati da esponenti famose del sesso femminile, circa reiterati odiosi ricatti sotto forma di abusi sessuali in cambio di favori e aiuti professionali.
La provocazione avviene sviluppando la storia con uno script che pare materiale altamente infiammabile, organizzato scientemente e caricato a tal punto di materia combustibile, da generare fiammate senza controllo, una volta gettato maliziosamente e tendenziosamente sulle ceneri ancora calde di una tematica tutt'altro che risolta od appianata.
La reiterata violenza sulle donne ostentata a ripetizione dal film, l'esclusiva, monocorde presenza di un uomo bianco e colono escusivamente sfruttatore ed assassino (se si eccettua la figura sottomessa e soccombente del marito, liquidato e tolto di mezzo in pochi istanti), ferino e bieco, l'accoppiata in forma di "squadra-work in progress" tra due reietti e vittime, la donna violata nel fisico come nella psiche a cui viene sterminata la famiglia a sangue freddo, e l'aborigeno ridotto in schiavitù al pari dei suoi simili - risulta, nel contesto di una storia che pare compiacersi della violenza da horror di cui fa sfoggio senza alcun pudore, una pura, ostentata provocazione e niente più.
A rincalzare il fuoco dalle ceneri roventi, l'episodio deplorevole e inqualificabile di ieri sera avvenuto in proiezione stampa presso la sala Darsena al Lido: odiosi, vergognosi insulti a carico dell'autrice del film,.
Di fronte a questo imbarbarimento sensazionalistico da scoop mediatico, c'è da domandarsi come tutto ciò possa non essere stato incoraggiato dall'approccio deliberatamente provocatorio e strumentalizzabile che la dinamica della storia sceglie spudoratamente ed impudicamente di portare avanti.
Ci sono modi, termini, regole e confini, oltre che stili e modi di agire, per denunciare sacrosante vergogne ed ingiustizie conclamate da parte di una società imbarbarita che crede di farsi spazio e potere applicando leggi della giungla soverchianti e ricattatorie.
Il metodo e lo stile della Kent, espresse qui nella sua controversa opera in Concorso, non ci paiono francamente le soluzioni più oneste e utili a rivendicare una giusta e sacrosanta causa di disparità e violenza ai danni di una categoria, classe o genere sociale.
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