Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Magari tra qualche tempo, ma occorrerà riconoscere il grande merito di Loro (inteso quale film unico, con le sue iterazioni di immagini e filosofie, la ricorsività, la assunzione di un punto di vista cucinato dal regista nel consueto trionfo di barocchismi e sentenze incartate sotto forma di innocui motti, o viceversa). Il merito è quello di aver rivelato una verità che era sotto gli occhi di tutti e che nessuno si era preso la briga di decrittare, nonostante la miriade di sintomi: Berlusconi è un uomo fondamentalmente noioso, la sua storia (depurata dalle implicazioni politiche, tristi e pericolose, liberata dal giogo della retorica populista) è quella di un travet, incolto ed anche insicuro, che si inventa una retorica e riesce ad imporla ad un popolo/pecora (portandolo a lenta fine), un venditore (anzi un piazzista, come gli rimprovera la consorte) che si fa forte di facili sogni e polvere di stelle di felicità, l’uomo medio (italiano fino al midollo) assecondato da una corte dei miracoli pronto a ricattarlo e tradirlo, schiavo dei propri impulsi, che sfida la morte a colpi di entusiasmo pompati dal Viagra dell’ottimismo. Un uomo pronto a morire e che pure, probabilmente, non morirà mai. Cose che sapevamo, cose che non vedevamo. Sorrentino accetta il rischio: trasporre su pellicola una storia di cui si sa ogni cosa, noiosa appunto, trasfigurarla, destrutturarla, rimpinguarla con la mordacchia della satira, pennellare i soliti quadri in movimento, frenetici e patetici, senza a sua volta cadere nel plot noioso. E riesce solo in parte: indovina i momenti di sospensione, quelle immagini che partono come tessere impazzite di un puzzle, le composizioni figurative come arazzi postmoderni; azzecca qualche aforisma che in altri autori parrebbero (forse sarebbero) boutade (l’altruismo è la più alta forma di egoismo), e li azzecca poiché ne conosce i perfetti tempi di inserimento, possiede la rabdomanzia del momento in cui il loro senso può esplodere e cortocircuitare. Ma non convince nella costruzione del personaggio, dell’eroe, di Lui. Sospeso tra necessità di ridicolizzare ed urgenza di capire motivazioni, donare loro un background (magari desaturarle con il maquillage del grottesco), finisce con il conferire a B. un’aura tra il diabolico ed il mediocre, con il trasformarlo in un Jep Gambardella che non abbia il potere di far fallire le feste ma quello di inventarne di sempre nuove, peraltro mettendogli in bocca, mutatis mutandis, le medesime parole sulla vecchiaia ed il suo fascino decadente e terribile (come Jep amava l’odore le case dei vecchi, Lui scopre di possedere un alito da vecchio, né odoroso né maleodorante). La ricostruzione storica è fedele ed efficace (la compravendita dei senatori, il nuovo incarico di governo, con annessa difficoltà di governare, l’ossessione crescente per la figa, le minorenni e le ragazze, la crisi con Veronica ed il relativo Armageddon, il terremoto dell’Aquila, i discorsi agli sfollati, la New Town, addirittura il leggendario ed aedico episodio della donazione della dentiera). Ma manca un po’ di colore, la capacità di creare un sentimento empatico: lo spettatore che, naturalmente, ove dotato di un minimo senso comune, non può parteggiare per B., non riesce nemmeno a disprezzarlo. La trasfigurazione poetica della noia e di quel male così borghese, così domestico, di quella rivoluzione cultural-copernicana così soffice e così pericolosa non coglie nel segno, sospesa a metà del guado: non saremmo così certi che fare satira su Berlusconi, crearne una poetica del deteriore, una narrazione rock e pop, zoomare sugli angoli del suo ego con l’obiettivo di ridurli ai minimi termini di efficacia sia il miglior modo per aprire gli occhi ad un popolo che, per un ventennio, li ha tenuti ben serrati (sempre che l’obiettivo di Sorrentino fosse effettivamente politico, e non eminentemente artistico).
Meglio la prima parte, in definitiva. Anzi, la prima metà della prima parte. Quella in cui Sorrentino, come detto, disegna impetuosamente la (resistibile) avanzata di un popolo di parvenu, di miracolati dalla politica e dal denaro. Di Loro, che poi saremmo Noi, rapiti da una quinta teatrale che nascondeva Lui ed il suo piccolo mondo antico di (dis)valori immarcescibili. Salviamo il (non disprezzabile) salvabile di questo Loro 2, quelle scene a sé stante che splendono come piccoli diamanti grezzi in un panorama di sostanziale bigiotteria cinematografica. Il confronto tra B. e Doris (sempre Servillo, ancora e sempre Servillo ed il suo talento imbarazzante e a volte francamente irritante), in cui si rappresenta l’osmosi tra chi sa di avere tra le mani vite e destini, risparmi e stilemi intellettuali, gusti e viltà di un intero popolo (i senatori comprati quale sineddoche dell’Italia). Berlusconi e la ragazza, il vecchio e la fanciulla, la Bella e la Bestia che ha dalla sua il potere del tutto disponibile ma anche la solitudine degli oggetti e della loro mancanza di anima (le farfalline donate, che non voleranno mai, se non su lembi di pelle già frolla). B. che, per provare a se stesso la intatta capacità di vendere (o di piazzare) case, sogni e gadgets di un universale stupidario, telefona ad una donna a caso e si spaccia per il Dott. Armando Pallotta, suadente, paraculo. Sempre Lui, insomma. Un momento che è già (s)cult, uno dei rari in cui il corto circuito, anche extradiegetico, riesce alla perfezione: Servillo che fa il milanese che si spaccia per napoletano e si sforza di imitarne l’inflessione. Questo è il Sorrentino che ancora ci piace e sempre ci piacerà.
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