Regia di Hantang Zhao vedi scheda film
Un film di silenzi, solo l’ululato dei lupi, il grido dell’aquila predatrice o i brevi dialoghi dell’incontro fra un uomo e una donna uniti da un bisogno estremo, dare un senso alla loro vita.
Jieshan Daban, regione autonoma del Tibet, Cina, 2010.
Attraversare da est a ovest la regione disabitata di Qiang Tang nell’altipiano a nord del Tibet, da solo su una bicicletta e senza alcuna assistenza, è la sfida di Yang Liusong a sé stesso.
Lo farà in 52 giorni, 77 se si calcola il tempo trascorso a Lhasa dopo aver incontrato Lan Tian, ex fotografa costretta su una sedia a rotelle da un incidente, caduta mentre fotografava le stelle nel cielo sopra il monte Kailsh.
Lan Tian è “cielo azzurro” nella lingua cinese
Yang nella filosofia cinese si oppone allo yin, è il "lato soleggiato della collina”.
Il destino è nei loro nomi, l’energia che li unisce sarà la loro guida per superare ostacoli che definire insuperabili è realistico.
Ma la realtà cos’è? “La realtà non basta a nessuno” scriveva Pessoa, e dunque uno spazio immenso, impervio e disabitato da attraversare in bicicletta non è il contrario dello spazio immobile di chi, privo di movimento, si muove con la mente e può ancora fotografare il cielo.
Nasce così una realtà altra che non ha bisogno di nomi, non è sogno perché è tangibile, l’impresa di Yang Liusong è vera, sofferta, spesso vicina alla morte, eppure sentiamo che in quei giorni e in quel dialogo a distanza con Lian Tian è stata esperita una dimensione diversa della vita su questo pianeta, difficile da raccontare ma il cinema spesso riesce a confezionare qualche miracolo.
Zhao Hantang, alla prima prova come interprete e regista, prende le mosse dall’autobiografia di Yang Liusong, Super Wasteland (Beifang de Kongdi).
Si potrebbe eccepire sulla mancanza di mestiere, qualche ingenuità nel rendere per immagini quello che nel libro è la forza delle parole, ma la passione che anima il racconto rivela una partecipazione emotiva non comune e passi se qualche flashback rischia di disorientarci, ben presto si risale in equilibrio sul sellino e si ricomincia a pedalare.
Paesaggi di spaventosa bellezza sono fotografati da un grande del mestiere, Ping Bin Lee (In the mood for love, The Assassin), suoni e immagini si fondono in passaggi ora lenti e faticosi come il passo dell’uomo piccolo che si misura con forze tanto grandi, ora vorticosi come le cadute rovinose sul fianco di dune o dentro crepacci o si annaspa senza fiato fra le acque di una piena selvaggia e improvvisa.
Un film di silenzi, solo l’ululato dei lupi, il grido dell’aquila predatrice o i brevi dialoghi dell’incontro fra un uomo e una donna uniti da un bisogno estremo, dare un senso alla loro vita.
Antitetici, lei immobile sulla sedia a rotelle, lui in continuo movimento in uno spazio immenso privo di uomini, trovano nel silenzio il rimedio all’inarrestabile deriva del linguaggio e dunque della vita.
Il loro dialogo, che siano vicini o lontani, si svolge su altri sistemi, s’innerva di un riconquistato rapporto con la natura di cui sono spesso vittime ma altrettanto spesso vincitori.
E’ un messaggio di umiltà e tenacia quello che arriva a noi, di resistenza al male e affermazione di una fragilità che può diventare forza.
Forse, sembra dire da quella distanza sul tetto del mondo, c’è ancora una possibilità per questo “atomo opaco del male”, e il cielo sa se ne abbiamo bisogno
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