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Capone

Regia di Josh Trank vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Capone

di AlbertoBellini
8 stelle

locandina

Al Capone (2020): locandina

 

Distribuito esclusivamente on demand, causa pandemia Covid-19, Capone si presenta come “l’ultimo anno di vita di Al Capone”. In realtà, il film diretto da Josh Trank sembra celare qualcosa di più dietro l’influente figura di quello che è stato uno dei malavitosi più noti della storia americana, sovrano di un vero e proprio impero che detenne il monopolio del traffico di alcol: Al Capone divenne simbolo del proibizionismo e dei cosiddetti anni ruggenti, al contempo di crisi e fioritura, i quali hanno contribuito alla formazione di tutta una serie di immaginari collettivi, in particolar modo quello del gangsterismo. Ciononostante, Trank sembra distaccarsi da tutto ciò, non interessarsi alla storia, né al rigoglioso passato del gangster protagonista, sul quale è ormai calato il sipario. Piuttosto, quel passato affiora di tanto in tanto in una per nulla definita presa di consapevolezza da parte di Al Capone, la cui salute mentale e fisica è stata devastata dalla neurosifilide. Tutta la violenza e lo sfacelo, perpetrati ai danni della sua ex-roccaforte Chicago e della società americana, si ripresentano in un turbinio di follia che scombussola la fragile coscienza del protagonista e disorienta lo spettatore, entrambi incapaci di comprendere se ciò a cui si sta assistendo è la tragica realtà o l’ennesimo, malato, incubo. Il film si muove su questo confine, intessendo un racconto dicotomico fra l’autobiografico e l’onirico, totalmente ambientato in Florida, nella cui villa Capone finì in esilio, come il Napoleone Bonaparte al quale si ispirò.

Sin dalla prima inquadratura la macchina da presa si sofferma su un elemento scenografico, onnipresente nel corso del film, che diverrà parte di una struttura composta da una pluralità di simbolismi: le sculture che arredano i giardini della residenza Capone, cimeli di un’esistenza volta allo sfarzo. Queste tuttavia, progressivamente, abbandonano la loro location originaria: con l’arresto della catena di montaggio criminale, la famiglia Capone si ritrova in crisi ed è costretta a racimolare del denaro. Nel mentre fra i corridoi riecheggia il Nessun Dorma, la residenza diviene un accumulo di passate e presenti sciagure, trasformandosi in una prigione blindata per il suo stesso proprietario, la cui demenza lo riporta alle feste e ai nightclub, con Louis Armstrong e lo “scarface” in piena potenza, un sé stesso che in qualche modo venera ma rimpiange – sequenze surreali che rimandano inequivocabilmente a Shining. Follia pura dunque, che non si distacca da quella con la quale Capone e la sua gang hanno operato in oltre un decennio. In fondo al tunnel sembra restare un lieve sprazzo di “luce”, ciò che lo ha sempre saziato e che lo tiene ancorato al fisico reale: una borsa piena di soldi, nascosta non si sa dove, che i federali, in collaborazione con il dottore interpretato da Kyle MacLachlan, intendono scoprirne l’ubicazione. Il film comunica quasi esclusivamente attraverso significati intrinsechi delle immagini, e quella di un Al Capone reduce da un ictus che a stento disegna il simbolo del dollaro è di una potenza immane. Allo stesso tempo, il protagonista si crogiola nei dipinti di un’Italia vista come meta irraggiungibile, utopia di una vita quanto più “umana” possibile, spogliata di tutti quei peccati commessi (impersonati da Matt Dillon), seguiti alla radio come fossero una telecronaca sportiva. Ma, appunto, utopia resta, poiché Al Capone è e rimarrà parte fondante di questa foresta, come il Leone de Il Mago di Oz cantava: non il duca, non il principe, ma il re; e il re non ha alcuna intenzione di lasciare il proprio trono, tanto da giungere all’ostilità con i suoi stessi sudditi in un finale esplosivo, culmine di una paranoia irrefrenabile, nel quale emerge il riflesso più nitido, ma pur sempre “artefatto”, dell’Al Capone con sigaro, completo bianco e mitra thompson dorato, ombra di un idolo eccessivamente edulcorato.

Capone è una lenta ed inesorabile chiusa, la fine – per nulla lieta – non di un gangster, ma di un uomo, uno come tanti altri (non è forse un caso che il film inizialmente dovesse chiamarsi “Fonzo”, rievocando il diminutivo con il quale il boss veniva chiamato dagli amici e inserendosi così in una dimensione più intima, ma divenuto poi Capone probabilmente per ragioni di promozione). Il film senza alcun filtro rappresenta il decadimento, fisico e psichico, di quello che infine, seppur circondato da una famiglia, resta un uomo. Quello che un tempo immaginavamo (e vedevamo al cinema) come una bestia sanguinaria, ma avvincente e apparentemente immortale, è ora un essere incapace di intendere e volere, alla stregua di un vegetale, che sbava e si defeca addosso, munito di pannolone e carota in bocca per simulare il vizio dei sigari: immagini ambigue, amare e beffarde, ostentatrici d’una tortura alla carne. La continua insistenza sulla progressiva putrefazione di un organico privo di alcuna morale, se non quella mafiosa, sfocia in un body horror  (senza scomodare il cinema cronenberghiano) mostrificante e disgustoso, l’altra faccia della stessa medaglia: marcio in vita e così nella morte. La riuscita di questo personaggio da sempre sopra le righe è anche grazie ad una grande prova di recitazione da parte di Tom Hardy, maschera tragica, la cui overacting trova una chiara giustificazione. 

Al Capone, immobile sulla sedia, è divenuto una di quelle sculture; ora è lui il cimelio di un momento storico trapassato, oltreché rappresentante di un cinema che sembra star volgendo al termine (un discorso fatto parallelamente da Martin Scorsese con The Irishman): il nero tramonto del Gangster, ciò che è stato e che non è più. Giusto un ultimo “regalo” gli è concesso: la mano di un figlio, cuore pulsante di una vita sempre rinnegata, ma infine rincorsa sotto forma di un bimbo con palloncino; eppure ormai è tardi, e quel palloncino se ne vola via. Così finì Alphonse Gabriel Capone. Della sua eredità nulla resta, se non i valori con i quali lui e simili hanno vissuto e prosperato: sangue, merda e soldi. 

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