Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Un gran film, giustamente celebrato. Non riguarda tanto il colonialismo spagnolo, quanto più che altro le disastrose conseguenze sociali e politiche di una particolare psicopatia: il narcisismo.
«La fortuna aiuta sempre i prodi, non i codardi»: secondo il protagonista è la rapacità ad essere sempre premiata, e fare la differenza. Gli uomini si distinguono tra chi ci prova a primeggiare, dovendo a tal fine mettere da parte ogni morale, e gli altri, inferiori. Così però i rapporti sociali nella piccola comunità via via si fanno sempre più terrificanti per colpa dell’ambizione e della violenza non frenata, in nome dell’individualismo e del diritto più forte. «Io sono il più grande traditore della storia». Nel silenzio del non detto, nell’ambiguità, il potere dittatoriale fa paura: agli altri non resta che il servilismo opportunista, o una tremenda esclusione. L’ascesa del nazifascismo, nelle varie sue forme, è qui presente socialmente in pillole. «I mediocri misurano tutto con l’oro. Io misuro tutto con il potere. L’oro lo lascio ai servi».
Ma è un fallimento: tutti muoiono, uccisi da indios quasi invisibili, mimetizzati nella natura, la quale alla fine si riprende tutti i suoi spazi con le scimmie, annullando e ridicolizzando il sogno di grandezza umano. Con un intonazione stoica: tra il leopardiano (la miseria della grandezza umana) e l’ecologista (la necessità di rispettare le leggi della natura, armonizzandosi ad esse in umiltà). Splendida la rappresentazione della natura: indimenticabili tante scene, specie quelle della discesa dalla montagna, e del gorgo del fiume, ben accompagnate dall’ottima musica dei Popol Vuh.
In questo trionfo della natura, l’uomo resta inghiottito, impotente. Gli indios ancora liberi fan parte di essa, come qualcosa di naturale che si è reso a appunto organico alla natura, sintonizzandosi su di essa: chi commette ubris alla natura è destinato a perdere. Un tema universale, tragico, quello della irrispettosa tracotanza, dell’arroganza verso tutti e tutto: che qui porta inevitabilmente a un tunnel a cielo aperto, senza via d’uscita e senza speranza di ritorno, di una claustrofobia psicologica profonda.
Tanto più vede sgretolarsi in pochissimi giorni i sogni di una vita, aggrappato a una zattera ridicola (la zattera è incapace di difendere dai colpi del mondo, cui è esposta, ed è perciò simbolo dell’improbabilità delle sue ambizioni, sprovviste di senso di realtà), quanto più delira: si vuole sposare con la figlia… «Dio è con me…resisteremo». Il fallimento del suo imperialismo privato, alla Adler, è interpretato anche in modo fastidioso da Kinski, però: psicopatico, come anche nella realtà. Eccessivo nella sua recitazione: troppo in posa silenziosa, a voler stupire più con l’apparenza. Successivamente Daniel Day Lewis quelle parti difficilissime le ha fatte ben meglio.
Detto del male dell’arroganza, bisogna parlare anche di quello che appare (ma non è) il vero nucleo del film: la sottomissione degli indios, umiliati di continuo (chiamati «luride bestie» e in altri modi ugualmente affettuosi). «I nostri schiavi indios non valgono un granché… Non abbiamo neanche il tempo di dare loro una sepoltura cristiana». Il re indio, assoggettato come tutti gli altri, può dire questa verità storica: «Terremoti, epidemie, inondazioni si sono abbattute sul mio popolo. Ma quello che ci hanno portato gli spagnoli è infinitamente peggio»
Non si può trattare questo tema senza affrontare il risvolto religioso. Dice l’unico prete: «Scopo di questa missione è portare il messaggio di Cristo fra i pagani». Così il prete risponde alla ragazza che gli chiede di intervenire a fermare gli assassinii di Aguirre, che stava uccidendo anche suo marito: «Siamo tutti caduchi… È per la gloria del Signore che dobbiamo stare sempre dalla parte del più forte».
Dopo il ’68 si è aperta una finestra di libertà, per ricordare anche verità “scomode”, con un tono provocatorio. Herzog aveva solo 30 anni nel ’72, e questa opera (che ha prodotto e diretto, dopo averne scritto soggetto e sceneggiatura, come suo solito) è già di una maturità artistica e di una profondità concettuale assolute.
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