Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Alla larga da copioni stanchi, nel 1974 Werner Herzog rovistò, in vena di rielaborazioni avanguardiste, nella nozione di genesi, alla ricerca del primo concetto di Mondo, della prima volta che qualcuno avesse aperto gli occhi, dell’alba dell’uomo. Non gli importava se c’erano da attraversare deserti, navigare mari o scalare montagne. Quello di Kaspar Hauser (Bruno S.), trovatello esistito veramente intorno al 1830 nei pressi della città di Norimberga e lì condotto per mano da un losco figuro “padre” pentito, fu un percorso ispirato e sognante che dal mare si allontanò per salire, non senza affanni, la montagna irta e faticosa del rischio.
Più volte assistiamo, durante la proiezione, a scenari sfocati, sospesi tra il sogno e un antico ricordo. Il forte desiderio di conquista delle origini va oltre il sapere, è al di là della scienza, dell’istruzione, degli avvenimenti: Herzog vuole esaminare il lato oscuro e primordiale di noi stessi. Ecco perché Kaspar nasce dal nulla, dal buio di una cantina nella quale ha vissuto per ben 16 anni, incatenato e isolato da qualsiasi realtà. Non sa parlare, non sa scrivere, non è in grado di camminare.
Una volta che da una piazza di Norimberga viene trovato e accudito, inizia una formazione di coscienza che provoca più “danno” che giovamento. Vero è che, fino a che Kaspar era rimasto nello stato pressoché vegetativo, rudimentale e primitivo, chiunque aveva avuto il piacere, vantandosi, di misurarsi con lui sul piano dell’intelletto. Ma una volta che egli è cresciuto tramite la capacità di osservazione e l’educazione classica della società dell’epoca, allora le sue idee si scontrano, forti di una mirabile indulgenza, con quelle del quieto vivere, della religione assunta passivamente come dogma e imposizione, della stratificazione sociale come unica strada per riconoscere il potere e l’influenza della personalità. Kaspar diviene un acrobata che vive di schegge rubate nel tentativo di percorrere l’ambigua strada della comparazione tra sé e il mondo: per questo “cede” a Mozart e Albinoni, prestandosi corpo e anima a una situazione sociale sterile che non può essere la sua.
Uno degli aspetti più seducenti del lavoro di Herzog è l’opportunità che il regista si concede nel tentativo di creare una nuova sintassi visiva, uscendo dalla narrazione convenzionale e introducendo immagini che lasciano lo spettatore in balia di un black out percettivo. Un modo di girare certamente ambizioso, uno sguardo proteso verso un cammino mai battuto prima, che azzarda un modello che somiglia tanto a un’indagine perpetua, un work in progress incessante e tormentato. La storia lacunosa e insoluta di Kaspar Hauser non poteva che affascinare il regista tedesco: aveva tutto ciò che gli serviva per ribadire la sua stimata idea di morte del linguaggio.
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