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Judy

Regia di Rupert Goold vedi scheda film

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La recensione su Judy

di supadany
6 stelle

Festa del Cinema di Roma 2019 – Selezione ufficiale.

«Un cuore non si giudica da quanto ama, ma da quanto riesce a farsi amare».

Il corpo umano non è una macchina perfetta, tantomeno eterna. Alla lunga, il chilometraggio si fa sentire così che, inevitabilmente, chi ha corso di più ed è stato precoce, vede anticiparsi la data di scadenza.

A tante star è capitato esattamente questo. Da bambini/e prodigio, non hanno goduto dei privilegi offerti dall’infanzia. Per rimanere della partita, hanno dovuto sottostare a regimi rigidissimi e infine hanno pagato a caro prezzo un impegno prolungato, superiore alle loro forze, decadendo anzitempo.

Judy Garland è stata una di queste. Anzi, potrebbe tranquillamente esserne la portabandiera ufficiale.

Ritrovatasi in una condizione di ristrettezze economiche, nell’inverno del 1968 Judy Garland (Renée Zellweger) viene ingaggiata da Bernard Delfont (Michael Gambon) per esibirsi in una serie di concerti a Londra.

Grazie alla supervisione dell’assistente Rosalyn Wilder (Jessie Buckley), esordisce raccogliendo un tripudio di applausi. I problemi sorgeranno nelle date successive, quando Judy comincerà ad accusare l’influenza di Mickey (Finn Wittrock), la sua nuova fiamma, e a sentire la mancanza dei suoi figli.

Conscia di essere ormai prossima al capolinea, tenterà di piazzare l’ultima indimenticabile performance, così da lasciare un indelebile ricordo al pubblico londinese.

 

Renée Zellweger

Judy (2019): Renée Zellweger

 

Ormai, abbiamo perso il conto dei biopic dedicati a personaggi noti di ogni ordine e grado. Nel caso di Judy, la griglia operativa ha fortissime similitudini con quella di Stanlio e Ollio. Dunque, la protagonista è ripresa quando è ormai alle ultime battute, della carriera e della vita stessa, dalla Gran Bretagna arriva l’ultima occasione per combinare qualcosa di buono e gli affetti familiari sono condizionanti.

Anche gli step principali appartengono alla sfera dei cliché, tra un’esibizione da pelle d’oca e uno scivolone dovuto all’abuso di alcol, i flashback che inquadrano un’infanzia terribile, un incontro fortuito con due fan (frangente utilizzato per scodellare una porzione di ironia) e un rapporto sentimentale che determina l’umore di Judy, esattamente come la luna detta l’andamento delle maree.

Insomma, l’impalcatura staziona senza alcun atto di ribellione nella tradizione, però in prima linea c’è sempre lei, Judy Garland, ed è estremamente complicato non provare comprensione/compassione per com’è stata spremuta, raramente ascoltata e capita, quasi mai stimolata e appoggiata. Per giunta, la sua interprete Renée Zellweger, con tutte le dovute proporzioni ed eccezioni del caso, ha già vissuto sulla sua pelle il successo travolgente e anche una caduta rovinosa, che l’ha portata lontana dal cinema per sei lunghi anni (da My own love song del 2010 a Una doppia verità del 2016). Così, nei suoi occhi e nelle smorfie spesso poco più che accennate, in una postura che segue lo stato psicofisico del momento, si leggono malesseri e pulsioni, diapositive di un’artista in decadenza, consumata interiormente così come nel fisico.

Per chiudere, se il film possiede un linguaggio talmente nitido tanto da produrre un ritratto senza angoli da smussare, è altrettanto abile nel grattare la superficie nei punti indicati, avvicinando più che mai il personaggio al cuore dello spettatore, rammentando come non sia sempre oro quel che luccica.

Empatico e calcolato.

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