Regia di Edoardo De Angelis vedi scheda film
Un film dal tono indefinito, che colpisce duro. Perché un'arma spuntata fa più male.
Il fiume non ha pace. Eppure scorre apparentemente placido, fra le sue sponde in rovina. Il suo popolo cammina sulle discariche, su detriti petrosi, lungo muri scrostati, sfiorando rifiuti e abbandono. Quello squallore frastorna. È il più potente degli allucinogeni, perché induce la più totale cecità sul mondo reale, spostando la mente verso le traiettorie psichedeliche della giostra di un luna park. Il vizio della speranza è il principale effetto collaterale, indesiderato dai più. L’esistenza di Maria si colloca, inquieta, nel mezzo di quel vortice, fra atroci evidenze negate e lo sfruttamento economico dei più disumani paradossi. La persona diventa merce, per salvarsi dall’essere scarto. Quella ragazza, violata da uno sconosciuto il giorno della prima comunione, ripescata dall’acqua nel vestito bianco della festa, è ora una quasi-adulta che partecipa, riluttante, ma più che mai viva e orgogliosa, a quel gioco sinistro di povera carne che si coltiva, si gusta, si vende, per metterla a frutto, sorvolando sul disprezzo che solitamente suscita. Il male è un fenomeno che si congela, che si accantona nei luoghi dimenticati e sudici di una terra senza padroni; il bene non c’è, sarà per questo che giorno o notte non fa differenza, il tempo non è mai né bello né brutto, non si gioisce, non ci si rattrista, lo stesso grigiore, a scanso di equivoci, risulta fatto a pezzi, impossibile appellarsi alla sua uniformità. La forza di questa storia risiede esattamente nella sua assenza di carattere predeterminato, che blocca sul nascere ogni tentazione di giudizio morale. Il vero realismo non calca la mano, la tiene in tasca, mentre l’occhio osserva senza capire, senza aver voglia di aggiungere nessun colore, nessuna sfumatura, nessun particolare accento luminoso. Il cinema della tela non dipinta, ma nemmeno smaccatamente grezza, è portatore di uno sguardo che non si lascia distrarre dalle allusioni estetiche, perché è costretto a rimanere attaccato all’azione, qualunque essa sia. La narrazione si converte allora in una sequenza di singoli istanti, intensi in quanto assolutamente liberi, svincolati logicamente dal resto, dal prima e dopo, e dunque brillanti della propria tiepidissima luce. L’opera di Edoardo De Angelis si presenta a noi come un flusso di superfici levigate a specchio, eppure opacizzate dal riflesso di un cielo che non vuole prendere posizione, non vuole essere lo sfondo d’infinito che dà profondità agli eventi, lo spazio aereo che soffia sulle cose il proprio odore naturale. L’artificio più radicale e invisibile è questa sorta di completa sospensione dall’universo: le stelle sono insegne al neon, le nuove nascite sono illusioni che si dissolvono nella penombra della sopravvivenza, per risorgere sotto forma di monete. L’unico luccichio è un falso, di volgare fattura. Autentica resta soltanto una sofferenza che nemmeno si intuisce, perché, più che non avere voce, manca di un nome per poterla chiamare, di una parola che la ricolleghi alle nostre individuali, dolorose memorie.
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