Regia di Shawn Snyder vedi scheda film
Vorreste sapere, per esperienza diretta, come si trasforma un cadavere dopo la sepoltura? Shmuel risponde di sì. Anzi: è ciò che desidera più di ogni altra cosa.
Ricordati che sei polvere. Il seguito lo conoscono tutti, ma nessuno lo vede. Shmuel non sa cosa succeda, là sotto, una volta che la pala ha smesso di depositare getti di terra sulla fossa appena scavata, appena riempita. L’idea lo ossessiona dal giorno in cui, a finire in quel luogo misterioso, che appartiene solo ai reconditi processi della natura, è stata la sua giovane moglie, morta di cancro. I suoi incubi parlano di pelle che sboccia come un fiore nero, di carne che cambia colore, ma il meccanismo della dissoluzione finale continua a sfuggirli. Non basta, a placare la sua angoscia, la sua fede di ebreo ultraortodosso. Anzi, è proprio la religione a suggerirgli l’immagine del corpo in decomposizione come una gabbia materiale per l’anima, quella neshama che rivendica silenziosamente il proprio diritto ad ascendere al cielo. La questione, più che spirituale, è biologica. Per questo motivo Shmuel contatta un professore di scienze scelto a caso (un Matthew Broderick di mezz'età che sfoggia un perfetto physique du rôle), affinché risponda ai suoi interrogativi. Inizia così un percorso alla ricerca di certezze difficili da ottenere, per tutti, religiosi e laici, perché l’aldilà è comunque una regione inaccessibile, anche se ci accontentiamo di collocarla, banalmente, nella nicchia del suolo che ospita una salma. Questa commedia tenta in ogni modo di sfidare il paradosso di voler osservare l’essere nel suo diventare non essere, misurandone razionalmente lo stadio di avanzamento. Lo sguardo è per forza di cose indiretto, il ragionamento segue le vie traverse dell’analogia, la pratica si avvale di una sperimentazione su modelli approssimativi. Il mondo dei vivi si arrabatta con i propri mezzi, inevitabilmente poco aderenti all’insondabile realtà dell’oltretomba. Questo disperato inseguimento del raccordo graduale e sfumato tra l’esistenza e la sparizione inciampa ripetutamente nella materia ingombrante e resistente, che non ne vuole sapere di evaporare. Qualcosa, di noi, è fastidiosamente durevole. Il dramma di Shmuel si sviluppa proprio intorno a quel blocco, tipico della pesante e complessa fisicità umana, così simile a quella del maiale. Il prototipo, non a caso, è offerto da un animale tabù, un colosso di grasso e viscere che non si può toccare, e che impedisce l’accesso alla verità. Un macigno ostruisce il passo, e così il pensiero, girando su sé stesso, si fa maniacale, quasi fosse causato da una possessione diabolica. Il cantore della sinagoga perde la voce, il suo lutto non si estingue, forse è colpa di un dispettoso dybbuk, entrato in lui attraverso l’alluce. In questa storia, così attaccata alla concretezza della sostanza, c’è spazio anche per la superstizione, gustosamente rivestita di fantasia infantile. L’immaginazione, in tutte le sue forme, dal sogno alla magia, è la fonte a cui attingiamo soluzioni impossibili per i nostri enigmi. La loro assurdità consente al gioco di andare avanti, facendosi sempre più ardito, fino a superare le vere barriere: quelle dei precetti che ci costringono, per devozione, a credere, tacere e soffrire senza poter comprendere.
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