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Volevo nascondermi

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su Volevo nascondermi

di Peppe Comune
8 stelle

Antonio Ligabue nacque a Zurigo il 18 dicembre del 1899. Dato presto ad una famiglia adottiva, Ligabue vive un’infanzia triste e dolorosa, contrassegnata dalla povertà e dall’emarginazione dal mondo. Le tragiche morti della madre Elisabetta Costa e dei tre fratelli, unite ad un corpo minato da malanni congeniti come il rachitismo e il gozzo, fanno il resto. Arrivato in Italia nel 1919 perché espulso dalla Svizzere a causa di un’aggressione alla madre adottiva, Ligabue arriva a Gualtieri, un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia. Vive solo, in un casolare sulle rive del Po. Qui Ligabue inizia ad esprimersi attraverso la pittura, l’unico linguaggio che dimostra di conoscere bene. Il 1928 è l’anno dell’incontro con lo scultore Renato Mazzacurati, che nota il suo talento e si impegna per farlo conoscere agli altri. È grazie a lui che Ligabue affina la sua tecnica e inizia a conoscere i colori ad olio. Nel 1937 venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché aveva dato mostra di forti impulsi autolesionistici. Vi ci tornerà altre due volte, fino a quando, nel 1948, lo scultore Andrea Mazzoli non lo prende sotto la sua tutela. Ma il malessere fisico non gli impedisce di maturare come artista e di farsi conoscere anche oltre confine. I suoi quadri iniziano a comparire sulle riviste specializzate e il suo nome circola negli ambienti delle gallerie d’arte. Fino a raggiungere una fame riconosciuta e ad imporsi come uno dei più importanti pittori naif del XX secolo. Morì a Gualtieri il 27 maggio del 1965.       

 

Elio Germano

Volevo nascondermi (2020): Elio Germano

 

 

“Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti è un film che omaggia con fare antiretorico la complessa personalità di Antonio Ligabue, equilibrando con buona onestà d’intenti i sofferti momenti di vita vissuta dell’uomo con l’esplosione della salvifica creazione artistica del pittore. Un biopic solido ed onesto, che attraverso la parabola esistenziale del pittore porta a riflettere anche sul valore discriminatorio spesso  associato alla "diversità", su quanto il crisma della "sranezza" attribuito agli altri serve solo a nascondere la poca voglia di metterceli ad ascoltare.

Tutto l’inizio del film (i primi venti minuti circa) è dominato da un montaggio in parallelo che mette in relazione continua la sua condizione di ricoverato in un ospedale psichiatrico con le vessazioni più o meno gravi che in due momenti distinti della sua difficile adolescenza fu costretto a subire. Un ritmo abbastanza serrato che serve allo scopo puramente descrittivo di fornirci qualche necessario cenno biografico, quanto basta per catapultarci nella delineazione psicologica di Antonio Ligabue, per farci conoscere i tratti propedeutici di un’esistenza che nasce già disgraziata e che poi prosegue avendo nella solitudine una fedele compagna di viaggio.

Non è mai facile confrontarsi con il vissuto di un grande artista e fare emergere l’essenziale del dato caratteriale e dello spessore poetico della sua arte. Giorgio Diritti ci riesce seguendo due direttive principali a mio avviso : uno, non concentrandosi tanto sul pittore in lotta perenne con i suoi limiti esistenziali, ma raccontandoci dell’uomo che lentamente cerca di trovare il suo posto del mondo prendendo sempre più coscienza del suo talento artistico ; due, restituendoci un’ambientazione rurale in tutto il suo essenziale candore, estromettendo ogni patina estetizzante allo svelamento della sua pura e cruda realtà. A colpirmi piacevolmente è stata la presenza di una luce vestita di vero, l’unica capace di dar vita senza ricatti di sorta a quella che mi piace definire l’archeologia dei luoghi, una luce che solo il rigoroso rispetto per i frutti della memoria lasciati a maturare può tradurre in un cinema dal forte valore testamentario. Giorgio Diritti si dimostra ancora una volta capace di saperci fare con la “materia contadina”, e come già era successo con “L’uomo che verrà” e con il più “contemporaneo “Il vento fa il suo giro” (non conosco ancora "Un giorno devi andare"), fa emergere la particolare attitudine a creare il giusto equilibrio tra il respiro antropologico conferito alla narrazione con gli artifici cinematografici che determinano la struttura della messinscena.

Dalla somma dei due aspetti indicati si ricava un film che omaggia l’artista e la fatica di fare l’arte per l’arte rifuggendo da ogni possibile tranello ricattatorio. Perché non tende, né a fare del pittore un santino da esportazione da poter esibire all’occorrenza nelle “feste comandate”, né tantomeno a fare dell’arte pittorica una specie di prodotto esclusivo scaturito dallo spirito elevato di pochi eletti. Antonio Ligabue ci viene restituito in tutta la sua natura contraddittoria e in tutta la sua istintuale verginità. Diritti ci mostra la fragilità emotiva derivante dall’estrema povertà che ha vissuto, ma senza indugiare sul pietismo d’accatto ; ci porta a comprendere la genesi profonda della sua arte, ma senza fare sconti sulla rappresentazione “verista” delle sue asperità caratteriali. Ligabue rimane un bambino dentro, cresciuto prendendo confidenza soprattutto con il volto della sofferenza e il peso della sopraffazione umana, uno spirito libero che si è fatto bastare qualche soldo guadagnato in fretta per darsi alla comprensibile ostentazione della fama raggiunta. Lo stesso vale per la delineazione rispettosa della pittura di Ligabue, sottratta da qualsiasi retorica inutilmente vanagloriosa. L’arte di Ligabue nasce dalle ferite di un corpo che ha conosciuto la violenta legge dell’abbandono, dall’urgenza di dare una forma simbolica alla sua personale idea di riscatto sociale. Diritti riesce a far emergere l’essenza psicologica della pittura di Ligabue, che nasce da tutta la rabbia rimasta per troppo tempo in silenzio, da un dolore che scopre di avere solo il linguaggio della pittura per potersi esprimere. Ecco allora dipingere volti e animali, autoritratti e spaccati di vita campestre, frutto diretto delle sue esperienze di vita o diretta promanazione della sua disarticolata ed esorbitante immaginazione. Ma animali, soprattutto animali, quelli che popolano la vita di tutti i giorni e quelli solo immaginati perché vivono in posti lontani, gli uni a rappresentare quella serenità bucolica che dovrebbe approssimarsi all’agognata pace dei sensi, gli altri ad incarnare quell’istinto ferino che dovrebbe rimanere una caratteristica esclusiva delle bestie feroci. Un’arte che risale dalle viscere della terra per depotenziare il volto crudele della violenza del mondo nel tocco etereo della creazione artistica. Giorgio Diritti ci fa toccare con mano questa sana “inconsapevolezza” di Ligabue, requisito unico e necessario per consentire all’artista di sublimare nell’arte l’esperienza dolorosa dell’uomo. E per farsi essa stessa esperienza sublime, da consegnare alla memoria dell’eterna bellezza.  

“Volevo nascondermi” è un bel ritratto dell’uomo e dell’artista quindi, grazie anche alla bella prova d’attore di Elio Germano, molto bravo nell’aderire fedelmente al corpo e all’animo di Antonio Ligabue.         

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