Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film
Come il veneto Emilio Salgari, che ci raccontava, con una fantasia in grado di contestualizzare sin nei dettagli i particolari di un mondo geograficamente lontano dal punto di origine, di pirati e corsari nei mari e nelle giungle esotiche, senza peraltro aver mai avuto modo di visitare di persona i luoghi che così appropriatamente la sua penna sapeva rendere così verosimili da renderli quasi palpabili, un identica sensazione, stavolta visiva, ci appare quando affrontiamo l'opera di Antonio Ligabue.
Eccentrico pittore di origine svizzera, ma di natali italiani, nato come Antonio Costa col nome materno, poi riconosciuto come Laccabue grazie alla decisione del marito della madre, ma nome che anni dopo venne storpiato per stesso volere dell'artista in Ligabue.
Un pittore naif sorprendente per il suo stile apparentemente imperfetto e quasi puerile, ma vivo, vitale, in grado di trarre dalla una vivida fantasia le corrette espressività ed i colori vivi e sgargianti per riprodurre una fauna, e una flora paesaggistica tutt'altro che autoctona e coerente con i pioppeti e la pianura che circonda i luoghi ove l'artista andò a vivere, dopo una tormentata età giovanile all'insegna della emarginazione in un collegio/clinica per malati mentali, e della derisione crudele e senza pietà alcuna.
Il riuscito film di Giorgio Diritti, cineasta da sempre particolarmente legato ed influenzato al contesto rurale/territoriale delle storie che si appresta a raccontare, ne ripercorre i tratti essenziali della tormentata esistenza, soffermandosi sulla sfumatura più intima, da cui emerge in tutto il suo dramma il "ritratto" di una persona sofferente, emarginata, ma combattiva, orgogliosa, strenuamente alla ricerca di un apprezzamento altrui che difficilmente egli riesce a conquistarsi.
La vicenda di vita si concentra anche sul tentativo di instaurazione di quei rapporti umani a lui tendenzialmente sempre negati, non certo facilitati da un aspetto esteriore decisamente poco gradevole, capace soprattutto di esporlo al pubblico disprezzo o al più crudele ludibrio della folla insensibile e senza scrupoli.
Diritti utilizza l'ambientazione rurale della campagna padana come qualcosa di più che un semplice sottofondo scenografico, peraltro assai efficace, esattamente come risultava nei suoi precedenti ed assai apprezzati "Il vento fa il suo giro" e "L'uomo che verrà".
Il regista inoltre trova in un attore sensibile e epidermico, nervoso e riottoso quanto basta come Elio Germano, il più azzeccato interprete in grado, se non proprio di far dimenticare (sarebbe impossibile, oltre che immotivato), almeno di mettere da parte per tutta la durata del film la già epica e magistrale interpretazione che ne fece il grande e recentemente compianto Flavio Bucci nella altrettanto riuscita ed indimenticata versione televisiva a puntate del 1977 a cura di Salvatore Nocita.
Splendida l'umanità che il sensibile attore romano - truccato per l'occasione in modo realistico ma perfetto in modo tale da immergersi anche esteriormente nei panni dell'artista - fa percepire in modo palpabile nel rappresentare un reietto ruvido e riottoso, ma anche insicuro e complessato (soprattutto nei confronti delle donne, che ama e teme con la stessa incongrua e contraria forza d'impeto), costretto a vivere nell'isolamento e in condizioni di vita materialmente sin estreme, quando comprende che la pittura riesce, più di ogni altra forma di comunicazione, più che di arte vera e propria, a creare in lui una connessione ideale utile a renderlo finalmente partecipe, rivalutato e finalmente riverito, nei riguardi di un mondo insensibile e crudele che, fino a poco prima, non ha saputo fare di meglio che rifiutarlo, deriderlo, umiliarlo.
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