Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film
Stupendo. Di una finezza psicologica, di una squisitezza estetica, di cui bisogna rendere atto a Diritti.
Germano interpreta strepitosamente una parte difficilissima, come sempre quella di un malato psichiatrico. Del quale si mette in mostra l’impressionante, indicibile quota di dolore mentale. Per accenni rapidi ma chiarissimi, tutto l’immenso rifiuto subìto appare in chiara luce: da parte della madre naturale, della famiglia adottiva, della stessa scuola, dei compaesani, dell’altro sesso. A parte rare, toccanti eccezioni, è costretto dalle sue tare naturali a non poter vivere in comunità, come il titolo ricorda. Diversità ed emarginazione sono ben affrescate, come portatrici di ingente sofferenza.
Il bullismo accomuna giovani e vecchi, nella sua bestialità, contro un personaggio che, per quanto difficilmente avvicinabile, è quasi sempre stato innocuo con gli altri.
Indimenticabili le terribili parole del maestro: «Sei un errore… Non meriti di esistere… Non è questo il tuo posto»
Il dolore lo fa piangere, ma è commuovente il suo attaccamento alla vita. Che è innanzitutto attaccamento alla relazione, nella speranza dell’affetto. Dipingere voleva, per lui, dare l’esistenza a qualcuno da amare, per non stare solo. Soprattutto donne, è ovvio, ma anche qualcuno non legato all’esigenza sessuale. Crea dei compagni di vita che lo aiutino a sopportare il dolore dell’esistenza. Escamotage del tutto accettabile per un malato psichiatrico, quando invece pericoloso per i normodotati (è bene ricordarlo, ad onta di una certa cultura dell’evasione estetizzante ancora largamente in voga da noi).
Splendida è pure la ricostruzione dell’immaginario estetico e mentale del pittore (i galli…), con la loro bestialità, autenticità, anche aggressività. Ligabue ci ha ricordato, ancora una volta ma assai bene, quanto siamo animali, e quanto siano le emozioni a caratterizzarci nel modo più tipico, nel bene e nel male, che lo si voglia o no.
Eccellente è pure la resa dell’immaginario onirico, spesso inscenato ad occhi aperti, anche nel letto dove è immobilizzato, segno dell’ennesima condanna alla limitazione, così umana del resto. Il pensiero corre a creare immaginariamente ciò che la frustrazione della realtà impedisce di avere, pur volendolo.
Forse troppo trattata la parte sulla parte finale della vita, quella del successo; ma interessantissima perché mostra come lui, da persona anticonvenzionale, e forzatamente tale, ha usato di tale successo. Da una parte, per sentirsi importante, vedendo riconosciuto il proprio merito sociale, con un senso della realtà lì non così deteriorato. D’altra parte, per come usa i soldi e le sue opere, che poi portavano i soldi: li usa in modo tutto sommato equilibrato, per avere qualcuno cui volere bene.
Ma è indicativa la mancanza di possessività e di avidità: in tanti casi distrugge le sue opere. Siamo al nocciolo del candore di certa malattia mentale: che, paradossalmente, mette nella condizione di apprezzare ciò che più conta nella vita, senza attaccarsi in modo ossessivo a progetti, programmi. Il che, per certi versi, appare un vantaggio rispetto a tanta patologia dei normodotati, al netto del rispetto della terribile difficoltà degli equilibri di questi psicopatici.
Poi, sotto il profilo estetico, i complimenti si sprecano. Stupenda la fotografia di Cocco, che rende omaggio al paesaggio emiliano, il più caratteristico e appagante, forse, di quelli padani. Ottima la colonna sonora.
Ma indimenticabile è il trucco, di Signoretti a altri: per come è capace di creare un volto così caratteristico, scavato e deturpato, il che è un aspetto visivamente decisivo, per la vicenda del pittore italo-elvetico.
Film autentico, serissimo, privo di retorica e sanguignamente umano: se non è un capolavoro, poco ci manca.
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