Regia di Joe Berlinger vedi scheda film
Quarto lungometraggio sul serial killer Robert Theodore Bundy, il quinto se si considera un film Tv di fine anni '80 (l'unico dei cinque che non ho visto), che conferma il difetto dei precedenti. È la frammentarietà a penalizzare questi prodotti, ognuno dei quali focalizzati su singoli aspetti senza considerare gli altri. Il film di Berlinger, ispirato dal libro di Elizabeth Kendall (da recuperare anche il testo di Ann Rule, Un Estraneo al mio Fianco), si concentra sulla storia giudiziaria del caso Bundy e sul rapporto che lo stesso ha avuto con due delle sue quattro donne storiche (in particolare con la Kendall). Vengono infatti omesse del tutto le ragioni che stanno alla base della serie omicidiaria, i rapporti con la fidanzata storica, che non è quella mostrata nel film ma Stephanie Brooks (totalmente omessa, probabilmente per ragioni di rispetto a persone ancora in vita, e invece connessa alla deriva assassina di Bundy, che uccideva tutte ragazze con la capigliatura che ricordava la fidanzata storica), ma anche le attività svolte con incredibile successo al 911, al fianco della futura scrittrice di successo Ann Rule. Bundy infatti, grazie alla sua dialettica e una certa capacità di muovere la volontà altrui, riuscì a salvare più di una persona che minacciava di suicidarsi. Diplomato in psicologia, studente in giurisprudenza, una carriera quasi politica agli ordini dei repubblicani, con una capacità affabulatoria tale da ispirare addirittura lo scrittore Thomas Harris a guardare al caso (insieme a quello di Ed Gein) per la stesura del romanzo Il Silenzio degli Innocenti. Un po' come successo al Dottor Hannibal, l'FBI, nelle persone di Robert Ressler e John Douglas (due monumenti della criminologia moderna), a lui si rivolse per la cattura del misterioso killer chiamato “il Killer del Green River”, chiedendone pareri e opinioni.
Bugiardo cronico, abile a cercare vie di fuga e orientato a un sensazionalismo volto a fare del suo caso uno spettacolo vero e proprio.
Berlinger, a differenza dei colleghi che lo hanno preceduto nell'arduo (a quanto pare) compito di traslare su pellicola le avventure criminose del killer, sorvola del tutto sui modus operandi (variabilissimi ed elaborati) del killer. Gli omicidi sono raccontati, in parte, in aula di tribunale, ma non sono messi in scena (salvo qualche flash). Alla fine resta la solida prova di Zac Efron (molto bravo, il miglior Bundy cinematografico) e un incredibile senso di tristezza sia per l'alto numero di vite sia per come un brillante elemento sia stato rapito dal richiamo del male (fu persino lodato dal giudice che lo condannò, per le capacità di giocare con le leggi e tentare una difesa impossibile). Sul perché questo sia avvenuto, Berlinger e i suoi sceneggiatori non muovono ipotesi. Si limitano a raccontare parte di quanto è avvenuto, senza scavare nel passato di Bundy.
Si segnala tuttavia il rispetto di quanto effettivamente successo nella realtà, ivi comprese la diffusione massmediatica del processo in Florida, l'amore sbandierato di una serie di ragazze che daranno il via al malato fenomeno delle “groupie” (ragazze infatuate e attratte sessualmente dai killer) e la duplice evasione di Bundy. Insieme al caso dello Zodiac, a distanza di anni, Ted Bundy continua ad affascinare Hollywood e la criminologia. Probabilmente se fosse ancora in vita, da narcisista cronico, ne avrebbe provato un piacere malsano.
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