Regia di Peter Farrelly vedi scheda film
Farrelly, facendo leva soprattutto sulla forza del messaggio che ha inteso veicolare, utilizza quelli che potremmo definire tutti gli stereotipi etnici e razziali del periodo in cui è ambientata questa vicenda (il 1962 e realiuzza un'opera che è un miracolo di equilibrio e intelligenza. Ottimi gli interpeti e buona la sceneggiatura.
“Non so se i film possano davvero riuscire a cambiare le persone ma credo che i nostri gesti quotidiani, le nostre azioni e parole possano decisamente farlo e credo anche che il nostro rapporto con gli sconosciuti, la nostra gentilezza o la nostra maleducazione, il modo in cui ci rapportiamo con loro, dicano molto di quello che siamo. Io sono fortunato: il mio lavoro mi consente di guardare alla vita delle persone da punti di vista differenti e provare così a capire meglio, a entrare in sintonia con loro, a superare pregiudizi e impressioni fallaci, soprattutto quando sono poi chiamato a interpretarli. (…) La cosa più importante della mia vita è stata viaggiare molto, e questo è risultato determinante per la mia formazione perché incontrare gli altri, confrontarsi con le loro differenze, mi ha consentito di smettere di dare per scontate certe cose e di fermarmi sulla superficie. Del resto noi siamo il prodotto dei nostri genitori e io da loro sono sempre stato abituato a pensare bene, a valutare positivamente tutto quello che mi gira intorno, uomini compresi. In particolare, mia madre ha sempre insistito su un certo tipo di decenza e di etica. (…) riflettere, valutare e andare così al di là delle apparenze. Non sempre ci sono riuscito ma se qualche volta in passato mi sono lasciato prendere dall’impazienza e dalla frettolosità, me ne sono sempre pentito. La prospettiva è una cosa fondamentale. (…) Personalmente poi mi è sempre risultato più facile reagire in maniera impulsiva quando mi sono trovato davanti a un’ingiustizia palese, soprattutto se perpetrata ai danni di qualcuno che non è in grado di difendersi. Per questo sono orgoglioso di aver potuto prendere parte alla realizzazione di Green Book perché è una storia vera che tocca il cuore delle persone, perché è sincera e non è un pamphlet ideologico ma parla invece dell’arricchimento che dà la conoscenza e gioca sugli affetti e sugli imprevisti che segnano i corsi e ricorsi dell’esistenza.” (Viggo Mortensen)
Sono partito di proposito da queste parole pronunciate nel corso di un’intervista rilasciata dall’attore in occasione della presentazione di Green Book all’ultima Festa del Cinema di Roma poiché mi sembra che rendano ancor più palpabilmente palesi le ragioni (anche private) che hanno reso tanto memorabile la sua interpretazione di Tony “Lip” Vallelonga. Perché la prova straordinaria degli attori (non solo di Mortensen, ma anche di Mahershala Ali che interpreta la parte del musicista nero colto e misurato che gli fa da controcanto) rappresenta, insieme alla sceneggiatura scritta in collaborazione con Brian Hayes Currie e lo stesso regista da Nick, figlio del vero Vallelonga della storia (e si sente che ci ha messo dentro il cuore), sono i principali punti di forza di un’opera sicuramente pensata con un occhio alla cassetta ma che ha comunque il merito di riportare alla luce con prepotenza una tematica annosa tutt’altro che risolta poiché purtroppo ammorba ancora non solo l’America ma la stragrande maggioranza del mondo cosiddetto “civilizzato” (e sappiamo bene come non ne sia esente purtroppo nemmeno la nostra Italia deviata dalla becera propaganda mediatica e istituzionale che ci sta rendendo tutti sempre più egoisti, insensibili e chiusi nella nostra presunta supremazia di “razza” eletta semplicemente perché abbiamo la pelle bianca e si finisce così per considerare il differente colore della cute e ogni altra diversità, una minaccia dalla quale si pensa di doversi difendere a tutti i costi.
Passo comunque direttamente al film (realizzato peraltro da un regista sul quale – personalmente - non avrei scommesso un soldo bucato ma che questa volta - e mi sembra molto positivamente visto il risultato - ha messo da parte oltre al fratello e sodale Bob che non ha partecipato nemmeno alla produzione, anche il “politicamente scorretto” che aveva caratterizzato tutta la sua precedente attività cinematografica e che era la cosa che più mi aveva irritato nelle sue pellicole) per raccontare in solitaria una garbata (ma non innocua) parabola sulla tolleranza che anche a me è sembrata davvero un piccolo grande capolavoro di eleganza e divertimento (come l’ha definita Marco Spagnoli su Vivilcinema) che ha reso un buon servigio al cinema proprio nel suo essere “popolare” e accattivante per una buona fetta di spettatori trasversali che infatti hanno riempito molto di più le sale.
Lo ha fatto con uno stile piano e un uso molto sobrio ma efficace, degli attendibilissimi elementi scenografici che insieme alla musica, gli abiti e gli ambienti ultracool degli anni sessanta, riescono a riprodurre benissimo (e renderli cosi credibili) il clima e le condizioni di vita di quell’epoca.
Insomma senza troppo ricamarci intorno e andando (quasi) sempre direttamente al sodo, Farrelly, facendo leva soprattutto sulla forza del messaggio che ha inteso veicolare, utilizza quelli che potremmo definire tutti gli stereotipi etnici e razziali del periodo in cui è ambientata questa vicenda (che in qualche modo attualizza ai tempi nostri) per realizzare un’opera che per tre quarti è commedia esilarante e per il restante quarto un dramma che tocca le corde più profonde della commozione.
I protagonisti del racconto sono due individui che più diversi non potrebbero essere (addirittura incompatibili direi) e questo per carattere, etnia, estrazione sociale, motivazioni e interessi. Da una parte c’è il talentuoso e malinconico pianista Don Shirley, raffinato, schizzinoso, colto, ricco, aristocratico (anche omosessuale, scopriremo in seguito). Un nero insomma che l’arte ha così elevato (abita in un appartamento lussuosissimo sopra la Carnegie Hall) da renderlo lontano sia dalla sua gente che lo guarda come un alieno, che dai bianchi poichè malgrado il suo elevato virtuosismo musicale, continuano a considerarlo di una razza inferiore. Un uomo che vive con profonda sofferenza interiore questa condizione e che proprio per questo ha scelto (forse proprio per riappropriarsi un poco della sua “negritudine”) di tenere una serie di concerti negli Stati segregazionisti del Sud per sfidarne la mentalità razzista e retrograda. Dall’altra, c’è invece un bianco italoamericano molto sbrigativo e carnale che appartiene a una stirpe di emigranti cafoni e troppo esuberanti la cui sorte è quella di campare accettando umili lavori (Tony “Lip” Vallelonga), un ex buttafuori ignorante, vorace, ciarliero, arruffone, volgare, plebeo e tutt’altro che immune da un certo fastidio verso gli afroamericani, che ha scelto di accompagnare Don nel suo rischioso viaggio verso sud in veste di autista e risolvi-guai, per puro interesse economico dopo aver contrattato a suo favore, mansioni e paga.
Li unisce dunque solo la casualità di una convivenza difficile, in apparenza quasi impossibile, motivata da un interesse reciproco ma difficilmente conciliabile, che lascerebbe immaginare esiti più di scontro che dii incontro e che invece l’America intollerante, bigotta e ottusa, renderà quasi fratelli nel corso di quel lungo viaggio pieno di intoppi e di imprevisti che li obbliga a scoprire molto l’uno dell’altro anche in ambiti diversi e più terra terra ma che arricchisce entrambi e, li aiuta a riconoscersi. E in questo, un ruolo molto importante ce l’hanno sia la passione di Tony per il pollo fritto (aborrito dall’altro) che la musica black, non condivisa assolutamente da Don, concertista del classico, che cerca invano di resistere agli insistenti tentativi del suo autista di indottrinarlo sulle qualità canore di Aretha Franklin (o di Little Richard) e le virtù delle cosce di pollo del Kentucky Fried Chicken.
Tutto questo può indurre il sospetto di trovarci di fronte a una storia raccontata centinaia di altre volte e dunque ampiamente scontata e risaputa. Per molti aspetti francamente lo è, e sarebbe quindi molto facile liquidare frettolosamente il film – qualcuno lo ha davvero fatto – come una specie di A spasso con Daisy a parti invertite. Ci sono infatti, ed è innegabile, alcune evidenti similitudini fra le due opere ma limitarsi a queste per esprimere un giudizio, sarebbe a mio avviso un grosso errore e non renderebbe certo giustizia a questa pellicola che ha molte altre differenti frecce al suo arco e che a me – fatte ovviamente le debite proporzioni – sembra che guardi più nella direzione del cinema di Frak Capra. Come nel suo cinema infatti, anche qui la mano è volutamente leggera pure quando esprime concetti forti che sono quelli della disponibilità che ciascuno dovrebbe mostrare verso l’altro, poiché se anche pregiudizi e prime impressioni possono farci assumere atteggiamenti di difesa e di rifiuto, poi spesso nei fatti le cose stanno diversamente ed è solo se si ha il coraggio di abbattere le barriere (anche ideologiche oltre che comportamentali), di abbandonare i pregiudizi e di aprirsi al mondo, che alla fine si ritrova la nostra umanità più genuina e con questa, anche la felicità.
Partiamo dunque dal titolo: “Green Book” (più esattamente la Negro Motorist Green Book) era una guida (pubblicata fino alla metà degli anni Sessanta) scritta e resa disponibile per evitare grane agli automobilisti afroamericani, in cui erano indicati hotel, ristoranti e altri locali accessibili senza problemi anche per le persone di pelle nera che in quegli anni, per quanto benestanti e altoborghesi che fossero, non potevano muoversi negli stati del Sud senza essere costretti a perdere la propria dignità (e qualche volta a rischiare persino la vita) perché se avessero osato entrare in altri luoghi a loro inibiti, diventavano automaticamente bersaglio di violenza, umiliazione e discriminazione totale (nel film ne abbiamo molti esempi, dalla proibizione di usare la toilette dei padroni di casa, all’arresto senza motivo perché “i negri non possono circolare dopo il tramonto”. Una situazione così paradossale che fa però scoprire a Tony quella che è la vera faccia del razzismo e che lo porterà a reagire alle ingiustizie nel solo modo che sa e conosce: con una violenza tanto immediata e istintiva, quanto inefficace.
Entrando poi nel vivo del racconto, dobbiamo ricordarci tutti che si tratta di una “storia vera” (non è nemmeno questa una novità nel cinema americano di questi ultimi anni, così tanto inflazionata, che spesso diventa un limite, una vera palla al piede più che un valore aggiunto) che qui riesce comunque ad acquisire una certa autonomia di movimento che permette al regista di intrecciare in una forma tutt’altro che inedita ma funzionale, il Buddy Movie con il Road Movie dentro a un percorso narrativo ad anello che copre otto settimane, effettuato a bordo di una lucida Cadillac di un suggestivo color turchese, nel corso del quale (e ribadisco) la vicinanza forzata, porterà i due uomini a colmare le iniziali distanze (o differenze) e a trovare dei punti di contatto che li avvicineranno sempre più l’uno all’altro: da una parte per esempio l’eloquenza pragmatica di Tony che riuscirà a risolvere diverse situazioni difficoltose (o di vero e proprio pericolo); dall’altra la cultura superiore di Don che, alla maniere del Cyrano de Bergerac di Rostand, aiuterà Tony a scrivere le lettere d’amore che scalderanno così tanto il cuore alla moglie lontana (Linda Cardellini).
Fra i momenti più coinvolgenti, mi piace poi ricordare almeno quello in cui i due uomini si affrontano polemicamente disquisendo su quale dei due è più “negro”, o l’altro ancora più straordinariamente empatico, della scoperta dell’omosessualità di Don che non provoca alcuna posizione di rigetto in Tony (e si scopre così molto più aperto di quanto lui stesso potesse immaginare) che liquida la faccenda con una semplice frase a suo modo rassicurante, capace di smorzare la drammaticità della situazione che si stava creando e di riportare il tutto a una normalità tutt’altro che scandalosa: “ho lavorato una vita nei nightclub di New York. Lo so che è un mondo complicato” e tutto finisce lì.
Si può concludere dunque condividendo in pieno ciò che ha scritto Mauro Caron, e cioèche alla fine Don avrà imparato a scendere dal suo piedistallo per calarsi in mezzo alla gente comune, mentre Tony avrà estirpato da sé quel germe razzista che covava in lui più come un’eredità socioculturale subita irriflessivamente che come un sentimento personale , ma non senza aver prima sottolineato che in alcuni momenti (per fortuna pochi) Farrelly a mio avviso ha corso seriamente il rischio di ricadere nei difetti del passato quando prova a costruire situazioni al limite della macchietta, per fortuna tutte dribblate in corner grazie alla bravura degli attori e soprattutto di Mortensen che davvero ci ha messo molto del suo per mantenere l’equilibrio e non cadere nel pecoreccio, offrendo al personaggio verità e umanità in abbondanza anche nei momenti più critici, cosa questa che gli consente di tenersi lontano da ogni possibile banalizzazione dell’istrionica figura che è stato chiamato a rappresentare sullo schermo..
Film in tutto e per tutto godibile insomma che dietro la storia della nascita di una fraternità non scontata, vale anche come antidoto ad ogni possibile inclinazione razzista, oggi più che mai necessario anche alle nostre latitudini (Cristina Paternò).
Aggiungo infine che, vera o edulcorata che sia (rispetto alla realtà) la vicenda narrata, resta comunque il fatto che la chiave di lettura scelta dal regista è molto efficace e ben realizzata e questo è quello che conta (le polemiche che sono sorte intorno sollevate dagli eredi di Don, lasciamole dunque alla famiglia poiché la verità ”vera” avrebbero potuto dirla solo Tony Vallelonga e Don Shieley . E visto che ciò non è possibile, a questo punto per noi spettatori conta poco poiché il film è bello, fatto bene e magnificamente interpretato. Che possiamo pretendere di più?)
Sinossi
Il pianista afroamericano newyorchese Don Schirley accetta una tournée concertistica di un paio di mesi negli Stati del profondo Sud (correva l’anno 1962 e lì vigeva ancora una mentalità razzista e una normativa segregazionista). Come autista e assistente, assume Tony “Lip” Vallelonga, italoamericano, ex buttafuori del Copacabana, dalla personalità totalmente divergente dalla sua. Attraverso un complicatissimo viaggio che li metterà a contatto con l’ingiustizia e l’ottusità del razzismo, i due impareranno a conoscersi ed apprezzarsi reciprocamente e nascerà fra loro un’amicizia che durerà tutta la vita.
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