Regia di Peter Farrelly vedi scheda film
Un divertente encomio all'importanza dei rapporti umani, ma anche una lezione sul razzismo.
La recensione che segue la trovate anche sul mio blog.
A quasi cinque anni di distanza da Scemo & + scemo 2, il dissacrante regista Peter Farrelly torna alla regia, questa volta senza il sodale fratello Bobby, e lo fa con il film che non ci si aspetta: Green Book, il racconto del viaggio di un afroamericano ed un italoamericano nel profondo sud degli Stati Uniti.
Siamo agli inizi degli anni sessanta. Nel paese a stelle e strisce la profonda ferita della guerra di secessione, combattuta per abbattere l’aristocrazia degli schiavisti del sud, è ancora lontana dal rimarginarsi e la spaccatura culturale da essa provocata continua a ripercuotersi enormemente sulle minoranze etniche. In tale contesto, il pianista di colore Don Shirley affronta una tournée attraversando le principali città della parte meridionale degli USA, affiancato dal savoir-faire dell’autista Tony Lip, subendo pregiudizi ed umiliazioni di vario tipo. Era alto il rischio di realizzare un’opera illustrativa, dal limitato gusto al di fuori del messaggio etico, eppure Green Book può vantare innanzitutto una buona sceneggiatura che, anziché fossilizzarsi sulla denuncia sociale, decide di puntare sulla costruzione del rapporto tra i due protagonisti.
Sono infatti le due prove degli attori principali, Viggo Mortensen e Mahershala Ali, a rimanere impresse: i loro personaggi sono uomini complessi che si scoprono lentamente, con l’avanzare del film. Don Shirley è un emarginato, vittima dei sensi di colpa causati dal suo successo e nascosto dietro la maschera dell’artista colto e geniale; Tony Lip è invece un individuo semplice, cresciuto sulla strada e, anche se apparentemente in pace con il suo essere parte di una minoranza estremamente stigmatizzata, porta sul suo corpo i segni delle difficoltà di restare una persona retta nell’ambiente difficile in cui è cresciuto. Green Book presenta la classica struttura di un road movie ed ovviamente il viaggio costituisce il percorso di crescita all’interno del quale ogni singolo ostacolo incontrato lungo la via rafforzerà la difficile relazione tra i due.
La regia di Farrelly non dimentica la lezione della commedia demenziale, allietando molti passaggi di trama con un’ironia a tratti feroce, ma estremamente divertente, comunque mettendosi totalmente a servizio della trama e dello sviluppo del legame amicale, sorreggendo la sceneggiatura anche grazie ad un buon ritmo e all’esperta gestione dei tempi comici. Il film non si perde nemmeno quando forse esagera, in alcuni punti, col didascalismo: questo infatti è presente, soprattutto, nel finale, dove il Natale e la vittoria dei buoni sentimenti non annullano la carica emotiva che il resto della pellicola riesce a creare, bensì porta a termine il discorso su quello che è il vero punto focale dell’opera: un encomio all’importanza dei rapporti umani, all’amore in tutte le sue forme, coniugale, fraterno e tra due amici.
Eppure Green Book non è solamente la storia di due persone incapaci di godersi la bellezza delle loro vite, ma che assieme si completano, imparando l’uno dall’altro; la difficoltà di mangiare pollo fritto o suonare musica jazz da parte di Don Shirley dà di fatto allo spettatore contemporaneo una lezione sul come porsi nei confronti del razzismo: il personaggio di Mahershala Ali affronta le élite bianche con un’intenzione sbagliata da principio, ovvero quella di elevare l’uomo nero ai bianchi perché in grado di eseguire alla perfezione la loro musica. I bianchi non sono superiori, ma la differenza del colore della pelle porta per forza alla diversità, prima di tutto culturale, mentre la dignità della “razza” si afferma prima di tutto con l’accettazione di essa. Suonare un pianoforte ed improvvisare una jam session, senza aver controllato di avere tra le mani uno Steinway, è un ottimo inizio.
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