Regia di Peter Farrelly vedi scheda film
Un film bellissimo e amaro allo stesso tempo, che mostra come la comprensione e l'amicizia delle anime semplici aiutano a superare il buio dell'ottusità e dell'ipocrisia sociale.
Nell' America del 1962, il regista Peter Farrelly, autore di film abbastanza leggeri e teneri, quali "Amore a prima svista", "Io, me e Irene", "Tutti pazzi per Mary" e altri, ci introduce la vicenda realmente accaduta del viaggio fatto dall' italo-americano Tony Vallelonga e il grande musicista e compositore jazz Don Shirley, partiti per una serie di concerti nel profondo Sud americano, rispettivamente interpretati da due favolosi attori, quali Viggo Mortensen (Trilogia de "Il Signore degli Anelli", "Il destino di un guerriero-Alatriste", "The road") e Mahershala Ali ("Il curioso caso di Benjamin Button", "Marvel's Luke Cage").
A New York, poichè il night club in cui lavora viene chiuso per ristrutturazione, Tony Vallelonga, un buttafuori, per poter arrivare a sfamare per due mesi la propria famiglia, viene ingaggiato come autista da Don Shirley, un musicista geniale, facente parte del Don Shirley Trio, per una tournée molto lunga, fino al profondo Sud.
Non mi dilungherò troppo sulla trama stavolta, poiché credo che quello che davvero bisogna ricordare di questo film è il suo grande valore sociale, in primis, seguito dall'immediato valore storico, poiché, nonostante la regia si caratterizzi per essere elegante, fluida, senza forti colpi di scena, in puro stile narrativo americano, si è voluta approfondire una storia dalla cornice alquanto amara con una raffinata scelta emotiva, ovvero quella di lasciar narrare dai soli attori e dalla loro espressività emozionale alcuni degli episodi più salienti e, a parer mio, non lontani dai tempi che viviamo tutt'oggi.
Questo film parla innanzitutto, con un sottofondo di vera amarezza non indifferente e presente in vari tratti narrativi, di tacita solitudine, di incomprensione, del talento venduto ad altri e, seppur ci appartenga, quasi venduto, nel tentativo di venire riconosciuti come membri effettivi della società.
In poche parole parla di discriminazione, e lo fà nella maniera più elegante possibile, così che questa pellicola possa essere sottoposta al giudizio anche dei più giovani senza alcun problema o sospetto di scene particolarmente reali e crude.
Il film tratta dell'amicizia, cresciuta piano piano e attraverso vari conflitti caratteriali, fra Tony e Don, personaggi antitetici sotto molti punti di vista, poiché Tony è un uomo verace, mangione, quasi giocherellone e un pò infantile, possedente una morale non troppo elevata ma non per forza pessima, che si arrangia come può per portare soldi a casa, dove ha due figli e una moglie che lo adora, vari parenti spiccatamente italiani, e vari amici che lo conoscono sopratutto come un uomo che sa farsi rispettare, avendo lavorato come buttafuori in vari locali, luoghi dove egli ha anche stretto semplici rapporti con alcuni mafiosi, ed essi hanno avuto modo d'apprezzarne la sagacia e le spiccate doti comunicative; perché la caratteristica principale di Tony non è solo quella di saper "menare le mani", ma anche di costringere, con varie stupidaggini, gli altri suoi simili a fare quello che vuole, tanto che il soprannome che gli amici di quartiere gli hanno affidato è Tony Lip.
In poche parole, tale personaggio è un vero soggetto!
Al contrario, Don Shirley, grande artista del jazz, è l'immagine stessa della raffinatezza: pulito, colto, elegantissimo, di una morale altamente elevata e non scalfibile, dotato di un genio musicale di cui i veri amanti della musica jazz, e non solo, riconoscono come celestiale.
Questi due personaggi molto diversi si spalleggeranno a vicenda nel corso del viaggio, fino ad arrivare a capirsi grazie a vari episodi alquanto amari, che porteranno Tony a rivedere completamente la visione razzista che aveva nei confronti degli afroamericani, e Don a scoprire che una sana amicizia può aiutare a sentirsi meno soli.
Il personaggio di Don Shirley si legge non troppo facilmente, sopratutto all'inizio, perchè sulle prime assume un comportamento schivo e altezzoso, quasi fosse un principe, sospetto che avranno avuto in molti in sala, non conoscendo la vera vicenda, e per questo merita un approfondimento in più rispetto al personaggio interpretato da Mortensen, poiché la prima cosa che capiamo di lui, purtroppo, è che è una persona sola.
La solitudine dei geni, degli incompresi, dei raffinati che non seguono la linea corta del mero successo e che, per forza del destino, sono costretti a diventare baluardo ipocrita della società bianca, proprio perché quel tipo di genio rappresenta un élite, un fiore all'occhiello che, però, se appuntato su una qualunque giacca al di fuori del palcoscenico, diviene un fiore come tutti gli altri, e sappiamo in tanti che, spesso e volentieri, i fiori si calpestano...
Don è questo: un fiore che non viene né colto dai suoi simili, per lo più umili, rappresentando un'eccezione per i tanti afroamericani di corvè al misero e umiliante lavoro nei campi di patate e cotone, e che non viene davvero riconosciuto e apprezzato in tutta la sua persona nemmeno da chi lo stima di più per dovere di cronaca, ossia la società americana ipocrita e bianca, che lo stesso presidente Kennedy stava cercando di cambiare, appunto negli anni '60.
Don è un afroamericano prima che un genio della musica, quindi è un uomo di colore che, secondo chissà quali convinzioni ridicole, non può entrare per mangiare in un ristorante di bianchi pur essendo il musicista che dovrà esibirsi da lì a poco; è il “nero” che non può provare un vestito nel camerino se prima non ha dato garanzia di poterlo comprare, ed è il “diverso” che non può essere integrato in nessuno dei due mondi sopra descritti.
Non vi ricorda qualcosa?...
Signore e signori, il cinema è forse il mezzo di comunicazione più immediato che, insieme alla fotografia e la televisione, ha potuto prestare la pellicola e l'audio a storie che ci riguardano da vicino, seppur non siano propriamente dei documentari di denuncia; il cinema parla di noi, dei tempi che abbiamo e che dobbiamo vivere, e sviscerare ogni fotogramma, ogni inquadratura, ogni espressione di questo film vuol dire capire esattamente che i tempi che furono sono anche quelli di oggi, dove la diversità, seppur rientri nel genio, viene sempre derisa, come se il talento che porta la nostra anima ad elevarsi non valga più delle mani che si stringono per stringere patti scellerati o parlare di cose di dubbia moralità, e questo solo perché la nostra bandiera, scritta in faccia, non è la stessa che vediamo guardandoci allo specchio, perchè se un uomo come Don Shirley, che Igor Stravinsky arrivò a definire un genio sublime capace di toccare cieli divini con la sua arte, non è stato in grado di far comprendere a molti che nessuno può scegliere se nascere in una tal maniera piuttosto che un'altra, e che se nasci dalla parte ritenuta sbagliata dall'ipocrisia sociale non puoi sperare nemmeno di poterti scegliere una camera d'hotel decente dove poter riposare in pace, allora significa che l'umanità deve faticare ancora per capire che tutto ciò può capitare a chiunque di noi, in qualunque epoca viva.
Ogni essere umano può essere messo al muro solo se ha una cicatrice sul viso o proviene da un luogo che ad altri non piace e, spesso e volentieri, anche con i propri talenti riconosciuti, qualunque essi siano, a tale persona ciò non basta per cancellare l'etichetta che l'ipocrita e impietosa società di cui fa parte ha stampato sul suo petto ancor prima della nascita, e di questo dobbiamo rendercene conto tutti!
Fin quando non arriverà un Tony Vallelonga che, seppur non troppo colto, ci tenderà la mano e proverà a capire la nostra situazione, tutti quanti ci sentiremo come Don Shirley: uomini e donne inadeguati di fronte ad un mondo che giudica dall'apparenza e non dalla sostanza, che preferisce una campana di vetro al posto del calore umano, perché si trova di fronte una muraglia che ha paura del confronto o, forse, non lo sa affrontare, e perciò vuole disfarsene subito.
Direte poi: e cosè il Green Book?
E' appunto la targa di riconoscimento che in quegli anni diceva: stare alla larga!
Era un libretto che indicava dove potessero entrare o alloggiare i neri in America, proprio perché non voluti nei locali per bianchi.
Questo libretto accompagnerà per tutto il viaggio i due protagonisti: lo si farà vedere senza sottolinearlo troppo, proprio perché tale onta vergognosa, ipoteticamente, non ha voluto essere considerata dal regista più in alto di un semplice elenco telefonico standard, a mio modesto parere.
Il Green Book rappresentava una guida per stare lontano dai guai, poiché, al di là delle pagine grigiastre e i numeri scritti sopra, non c'era tutela né scusa per non venire aggrediti da chiunque, per perdere i diritti umani appena solcata la soglia di un semplice bar per uomini caucasici.
Il punto è questo: vedendo questo tipo di film, si può imparare qualcosa?
Si deve, poiché è una storia vera, e le storie, come anche le stesse favole, portano una morale intrinseca al loro interno,e devono parlare chiaramente, senza mezzi termini, di ciò che comporta essere inseriti in un tessuto sociale che grida all'uguaglianza e allo stesso tempo schiaccia chi non ritiene sia degno della sua effige solo perché è di colore diverso, come se il colore significasse qualcosa, poiché scientificamente, abbiamo tutti le stesse cellule e possiamo davvero ritenerci tutti uguali sotto molti punti di vista, in primo luogo per essere tutti abitanti del pianeta Terra.
Perciò, uscendo dal cinema, chiediamoci se fosse necessario che un genio come Don Shirley patisse tutte queste umiliazioni per diventare un membro della società ritenuta "rispettabile", chiediamoci perchè non si giudichi prima dalla bravura invece che dal vestito e, se certe cose accadessero a chi ci sta più vicino, se avremmo il coraggio di ribellarci come Tony Vallelonga.
Chiediamoci ancora, uscendo dalla sala, inebriandoci della luce del corridoio che ci porterà a casa, che mondo vogliamo costruire per definirci davvero società moderna e libera, dove ognuno possa vivere, e non avere paura di fare un passo in più perchè ritenuto un rifiuto umano dalle etichette dell'ingiustizia terrena.
Bisogna però fare un appunto, alla fine di questa lettura critica che, credetemi, ci sta tutta!
Recentemente, la famiglia del vero Shirley si è scagliata contro il regista, poiché ha ritenuto che tale narrazione fosse piena di menzogne e troppo, se vogliamo, edulcorata, poiche, secondo loro, l'amicizia di Don con Tony non sarebbe mai esistita.
Aggiungo che la stessa famiglia ha smentito ciò che nel film è chiaramente dichiarato, ossia che Shirley fosse stato estromesso dalla famiglia stessa, cosa da loro ritenuta falsa, e che il nipote di Vallelonga, Nick, produttore del film, avesse, per circa trent'anni, chiesto allo stesso musicista di poter girare un film sulla sua storia e, sempre secondo la famiglia, senza ottenerne mai il consenso.
Dove sia la verità assoluta lo sanno solo i protagonisti, che ora non ci sono più, ma ciò non toglie al film il suo alto valore emozionale e sociale.
Analizzandolo dal punto di vista tecnico-artistico, esso presenta una struttura lineare, scorrevole, di lunga durata ma esente da pause soporifere, seppur sia una regia prettamente americana e impostata su molti primi piani e piani americani, in una sequenza non particolarmente fantasiosa, ricordando a noi spettatori molte atmosfere vissute in tanti film tipici di quegli anni, con Grant e Bogart, e definirlo uno spin-off di “A spasso con Daisy”, film con Morgan Freeman, a mio parere, non è proprio appropriato; questo, per voler essere pignoli, ovvio!
La caratteristica fondamentale della pellicola è proprio la recitazione, la straordinaria interpretazione dei protagonisti, a cui spero vada, meritatamente, il premio Oscar : Mortensen ha incarnato perfettamente il personaggio e il modo di gesticolare tipico di noi italiani come non ho visto fare da nessuno se non a Robert De Niro, e con una tale naturalezza che ha potuto farmi dimenticare completamente di trovarmi di fronte all'attore che già interpretò con grande bravura il personaggio di Aragorn nella trilogia di Peter Jackson “Il Signore degli Anelli”, mentre Ali, che avevo già avuto modo d'apprezzare in altri lavori, è stato assolutamente sorprendente. Mi piacerebbe che, anche per lui, ci fosse un susseguirsi di premi, poichè è stato davvero favoloso!
In poche parole, non si riesce a distinguere l'attore dal personaggio con questi due "great characters", cosa rarissima a vedersi in un film di tale entità!
Perciò, invito a vedere il film e ad apprezzarne tutte le eleganti sfumature, dove, in certe scene sopratutto, una sola inquadratura porta con sè un bagaglio emotivo non indifferente, in cui non si può fare a meno di chiedersi: ma quei tempi sono realmente finiti, oppure stiamo solo facendo finta di non vedere?
Green Book: il massimo dei voti.
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