Regia di Rene Eller vedi scheda film
... un'educazione che opponga alle esperienze concrete delle idee costruite in modo razionale non è in grado di modificare il comportamento di una persona. (da L’epoca delle passioni tristi)
Sarebbe riduttivo definire Wij come un film malato, lasciandosi coinvolgere dalla sua decostruzione nichilista o peggio ancora liquidandolo come quei lavori che approfittano della materia che vuole denunciare per trastullarsi in un generoso ammiccamento estetico. Wij è un atto di accusa verso lo spettatore, verso il suo sguardo interiore, remissivo e falsamente incredulo. Il film riesce a mettere in evidenza qualcosa per cui non si sono ancora trovate le parole adatte per essere definita, dunque il suo compito artistico coglie nel segno laddove la passività e le paure dei tempi in cui viviamo hanno scavato ben oltre che un solco profondo. Da una situazione di partenza che potremmo mettere in relazione alla ricerca di senso e di rifiuto dello smarrimento classiche di un’età tardo adolescenziale in cui non si è più ragazzi ma neanche ancora adulti, un gruppo di otto giovani dà via libera ai propri impulsi senza freni e senza limiti. Gli strumenti comunicativi tecnologici che mediano la crescita e la formazione dei giovani producono danni incalcolabili poiché il desolante mondo adulto circostante demanda agli stessi giovani la responsabilità della loro funzione diseducativa. Il risultato produrrà delle conseguenze che non sono destinate ad esaurirsi nel fatto in sé (il film si basa su accadimenti reali) ma che si ripercuotono e si insinuano nel tessuto della società che stiamo diventando, connotata da cinismo, crudeltà, indifferenza e sopraffazione. Wij raggiunge il suo scopo nel deserto comunicazionale tra generazioni in cui vittime e carnefici sono drammaticamente avvinghiati l’uno con il destino dell’altro poiché generati dalla stessa insofferenza verso la vita, incapaci di gestire sia le emozioni che le reazioni. La rinuncia del mondo adulto a governare l’evoluzione sociale si manifesta alla perfezione con un infantilismo di ritorno nel quale per nascondere l’oscurità della propria coscienza si tende in fretta a coprire e a semplificare le proprie vergogne circostanziando le responsabilità negative ad un soggetto che ha rivelato qualche debolezza in cui l’ipocrisia omologante possa rigettare la propria indignazione. I ritratti generazionali di Gus Van Sant, la fasulla libertà di Korine di Spring Breakers, o la tardiva risposta provocatoria al sistema malato degli Idioti di Von Trier, rispetto a Wij ci sembrano espressioni lontane, quasi ingenue e assai meno dolorose, in un contesto violentemente peggiorato. Siamo al punto zero di quella Età Inquieta di Dumont che aveva già avvertito pessimisticamente come una via senza uscita.
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