Regia di Gaspar Noé vedi scheda film
Un film tra alti e bassi, tra tecnica e improvvisazione, con una struttura volutamente illusoria, titoli di coda in apertura e quelli di testa a metà film. Efficace e coinvolgente nella prima parte, caustico e casuale nella seconda. Un lisergico viaggio tra luci e ombre di una storia realmente accaduta.
Parigi, 1996. Un gruppo di ballerini, in buona parte composti da androgini ed elementi LGBT, si riunisce per festeggiare in un enorme edificio isolato. Mentre la musica accompagna i passi di danza, gli ospiti bevono sangria in quantità industriale. Mezz'ora più tardi, una ragazza urina nel mezzo della sala: è la prima a risentire degli effetti di un potente allucinogeno, messo nelle bevande all'insaputa di tutti.
"La vita è un'impossibilità collettiva." (Una delle filosofiche didascalie calate, saltuariamente, in sovrimpressione)
Due righe di sceneggiatura sono più che sufficienti per dare a Gaspar Noé l'impulso creativo necessario a comporre un monstrum cinematografico dal contenuto pressoché inesistente ma dalla struttura a dir poco -per stare in tema- inebriante. Per creare la giusta atmosfera di confusione percettiva, Noé inizia il film con i titoli di coda. Una didascalia ci avvisa poi che l'ispirazione arriva da un fatto di cronaca avvenuto a Parigi nel 1996. Mentre in televisione sfilano i personaggi, sottoposti alla consueta, banale, intervista con classica -inutile- fila di domande, ai bordi del monitor risaltano alcune VHS: Possession, Querelle, Schizophrenia, Zombie, Suspiria. Poi, magicamente, l'azione si sposta nel luogo del ritrovo mentre a bomba piomba l'avvolgente brano Supernature, pezzo musicale che -coloro che hanno dagli 'anta in su' -hanno ballato decine e decine di volte in discoteca. Il clima si fa avvolgente, lo stile di regia cambia e riprende l'eccellente coreografia, mentre un piano sequenza di ben oltre dieci minuti anticipa quello, interminabile, più improvvisato (ma impressionante) del secondo tempo.
Noé non sta più seguendo una sceneggiatura ma il filo delle coincidenze, lo stimolo delle emozioni abbandonate alla danza sfrenata e coinvolgente che prosegue sulle note di Born to be alive. Una serie di dialoghi brutali, su come "fottere davanti e dietro" le ragazze ballerine, tenuti da due cugini di colore superdodati, sembra annunciare che qualcosa sta cambiando. Tempo e spazio sono concetti relativi ma seguono una logica, una regola immutabile: il tempo non torna mai indietro e lo spazio (in tal caso il capannone) è sempre limitato, circoscritto. Quando, a metà durata, arrivano i titoli di testa (con esplosione di caratteri psichedelici) nel film la concezione del tempo è completamente sovvertita e tutto (anche lo spazio) sta per rotolare sottosopra: la festa muta in dramma, gli effetti lisergici mettono a repentaglio la sicurezza delle persone e ognuno, senza più senso del limite, diventa un pericolo per se stesso e per gli altri. Da questo momento in poi anche la camera da presa -in simbiosi con lo stato d'ebbrezza dei protagonisti- sembra subire gli effetti della potente droga.
Noé si concentra quindi nella realizzazione di un piano sequenza che supera i 40 minuti, durante i quali ai ballerini è stata data carta bianca: i loro corpi si muovono come fossero sotto effetto di invasamento. Tra grida, urla, rapporti sessuali e azioni offuscate dalla momentanea assenza della ragione Climax si riduce, sul finale, in un vertiginoso esercizio di stile, con riprese via via sempre più traballanti e circonvoluzioni che contribuiscono a far girare -letteralmente- la testa allo spettatore. La sensazione è duplice: quella di trovarsi di fronte ad un'opera geniale e/o -al tempo stesso- non classificabile. Dopo una discreta accoglienza critica, a metà giugno 2019 dovrebbe uscire anche nelle nostre sale, e si prevede una netta divisione (a favore o contro) tra il pubblico. L'unica cosa sicura, riportando la frase impressa sui titoli di testa/coda, è che Climax è "un film francese, ed è orgoglioso di esserlo".
"Non c’è nient’altro da fare che bere, mangiare, scopare, drogarsi e ammazzare.” (Charles Bukowski)
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