Regia di Anatole Litvak vedi scheda film
Tratto da un romanzo in quegli anni molto popolare di Rachel Field, a sua volta ispirato a un fatto realmente accaduto, “All This and Heaven Too” (questo il titolo originale di “Paradiso proibito”) è il classico melodrammone in costume, strappalacrime e denso di emozioni “forti” (di quelli tanto per intendersi da “tirate fuori i fazzoletti che qui si piange”!!!) che si colloca a pieno titolo fra i risultati più “smaglianti” (sotto il profilo della resa recitativa) della sua protagonista, una turgida Bette Davis colta nel momento di massimo splendore (quello dell’insuperato “periodo d’oro” della sua giovinezza in cui si può dire che dettava legge ad Hollywood) che ricopre l’arco di un quinquennio che va dal 1939 al 1944. La storia, ambientata nella oleografica cornice della Francia di metà Ottocento, narra di un “malmaritato” la cui piatta vita di marito disilluso di una moglie gelosissima e di padre premuroso di quattro bei pargoletti, viene sconvolta dall’arrivo della nuova istitutrice, Henriette Desportes, che porterà lo scompiglio e l’amore, rompendo equilibri e convenzioni sociali (ma solo “teoricamente”, perché niente sarà davvero consumato). Il tema era abbastanza scabroso per l’epoca, e avrebbe potuto essere maggiormente esplicativo, quasi di “rottura” si potrebbe dire, se la sceneggiatura di Casey Robinson non avesse dovuto fare i conti con il codice di autocensura Hays che impedì di fatto al regista e alla produzione di spingere il pedale fino in fondo, raccontando davvero per quello che in effetti era stata, la “relazione” d’amore fedifraga, qui invece ancora una volta circoscritta (ipocritamente, e con risvolti adesso scarsamente credibili “da tempesta in un bicchier d’acqua”) a un semplice e banalizzato, castissimo rapporto di amore platonico , dai toni un po’ lacrimevoli del “vorrei ma non posso” che sacrificano passioni travolgenti al senso inoppugnabile del dovere e dell’onore, così spinto all’eccesso, da far ammettere all’uomo (un “ingessato” Charles Boyer) soltanto sul letto di morte di avere amato la donna “con ogni goccia del suo sangue” ma di essere stato assolutamente probo nel non concedersi il “lusso” della trasgressione di un appagamento effettivo che traduca in “atti” il pensiero e il “desiderio”. Lo potremmo allora definire adesso proprio “un classico del martirio” dove si vive esclusivamente di sguardi e di sospiri, e persino un bacio o un semplice abbraccio viene negato “per non turbare la decenza del perbenismo” della retorica imperante del “benpensare”. Alla Davis quindi viene questa volta riservato il ruolo di una estatica e pudibonda governante, “mater dolorosa senza macchia” dalle inattaccabili virtù, costretta a rimanere “integra” nel corpo e rassegnata a vivere la fine dei sui giorni soffocando il richiamo dei sensi, tutta dedita a quel lavoro di educatrice severa intonsa e casta (sia pur frustrata). Come al solito, il pregio maggiore della rivisitazione odierna di una pellicola di siffatto tenore, elegante nella forma e dalla diligente cura di una regia priva di voli pindarici ma professionalmente ineccepibile come quella di Anatole Litvak, sta proprio nella prova maiuscola della protagonista, misurata e credibile anche nei passaggi più commoventi. Le tiene testa, una altrettanto convincente Barbara O’Neil (la moglie). Il resto, si fa guardare, ma ormai non riesce a “travolgere” più (e forse adesso anche i “fazzoletti” risultano un poco anacronistici).
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