Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Un Olmi minore, un po' affaticato nell'ispirazione e affossato da una sceneggiatura di rara inverosimiglianza. Il suo tocco registico tuttavia rende il film leggero anche nei momenti più macchinosi: d'altra parte non era neanche facile fare un film su di un outsider appassionato di araldica, il cui hobby è quello di assegnare alla gente titoli nobiliari a caso. Spesso il film si ingolfa in un poeticismo un po' troppo scoperto, col protagonista a vestire i panni di un "puro di cuore" così ostentato da frenare un po' l'empatia dello spettatore; così come risulta un po' prevedibile la contrapposizione di questo loser con i "vincenti" dell'Italia rampante post-Boom (l'ex compagno di scuola, che "ha fatto strada"), anche se bisogna ammettere che la sequenza in cui il protagonista scappa impaurito da un aperitivo ha una sua espressionistica efficacia. Nelle zavattiniane sequenze di pedinamento e nell'incontro con la "principessa" viene fuori il meglio di Olmi, regista capace come pochi altri di penetrare nella quotidianità degli umili, cogliendone pensieri ed emozioni con una genuinità disarmante (e facendo uso di un montaggio "soggettivo" dal ritmo quasi subliminale). Queste qualità, unite ad una suggestiva rappresentazione di una Milano afosa, fanno passare in secondo piano le goffaggini di alcuni snodi narrativi, i cali di ritmo, la non del tutto risolta commistione di realismo e favola. Di questo racconto morale su di un solitario che "non è fatto per i suoi tempi", eppure è così umanista da scorgere nobiltà d'animo in tutti i volti che incontra, si apprezza anche l'inopinata e beffarda svolta dell'ultima parte, che pare quasi una parafrasi del Pickpocket bressoniano.
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