Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
FESTIVAL DI CANNES 2019 - CONCORSO Esasperato, esagerato, interminabile, infinito, irritante, questo lunghissimo Intermezzo di Mektoub: ma questi non sono aggettivi che intendono demolire un'operazione cocciuta e scientemente concepita per innestarsi in un progetto compiuto ed elaborato nei dettagli, quale è appunto Mektoub. Mezz'ora di dialoghi fitti e "nature", che paiono troppo naturali per non sembrare improvvisati (e non lo sono di sicuro) girati esclusivamente on the beach sulle spiagge di Sète, tra spalmature di creme e assaggi di formaggi home made; seguono tre ore filate di disco anni '90 a manetta, intervallati da un quarto d'ora di rapporto orale uomo a donna nel cesso del locale, ripreso a distanza ravvicinata senza lasciare nulla all'immaginazione, né lasciarci dubbio alcuno che si tratti di sesso simulato.
Questo, in estrema sintesi, è Intermezzo di Kechiche. E lui, Kechiche, è più che mai un autore che se fotte di piacere o di risultare gradevole, e preferisce andare avanti per la sua strada, in un'opera incastrata tra due atti che evita titoli di testa e di coda, proprio come in un vero intermezzo tra due capitoli.
Mektoub, ricordiamo, è il destino, quello a cui vanno incontro con atteggiamento disinvolto, a volte incosciente, e spirito libero, i ragazzi 18/30enni che abbiamo iniziato a conoscere nel Canto Uno, e seguiamo qui mentre conoscono una nuova villeggiante diciottenne in spiaggia sul finire della stagione, e la invitano a trascorrere assieme una sera in discoteca in quel 1994 in cui tutto, a parte l'assenza dei cellulari, (e il fatto che si possa fumare dentro un locale) pare già omologato alla quotidianità di oggi, come se venticinque anni fossero un attimo, un cenno, un frammento veloce come un istante.
E forse è davvero solo questione di attimi che ci separano da quegli anni solo apparentemente lontani.
Kechiche esplora la carne, la sensualità, esplora i fisici ora tonici, ora carnali e ridondanti, ma certo belli, di una gioventù esuberante che vive la libertà della giovinezza come un dono di cui essere consapevoli, riuscendone ad approfittare appieno. Kechiche inquadra col rispetto che un archeologo porrebbe per una sacra reliquia, i culi formosi delle sue giovani dee (chi ha avuto l'ardire di contare i primi piani dei deretani in bella vista delle girls, parla di 180 inquadrature, con una particolare preferenza da parte del regista per quello più opulento, ovvero il posteriore giunonico, esibito in shorts cortissimi di jeans, ma assai fotogenico della bella e presto sposa incinta, ma tutt'altro che doma Ophelie).
Kechiche supera gli ostacoli narrativi, elimina la sceneggiatura sostituendola con la spontaneità della vita. O almeno così facendoci credere. Restando attento anche stavolta ad evitare completamente di prendere posizioni o di giudicare in qualche modo la sfrontatezza o semplicemente la naturalezza dei comportamenti disinibiti e promiscui dei suoi giovani protagonisti. La storia non c'è perché è quella della vita che scorre: ci sono le persone, e soprattutto i loro corpi. Si esce dalla sala frastornati, forse pure sfiniti, ma convinti di trovarsi di fronte ad un notevole sforzo cinematografico in corso di compimento.
Aspettando il secondo atto (ovvero il terzo film), quando forse anche l'inverno non potrà fare a meno di arrivare, anche a ridosso delle nostre giovani disinibite studentesse in bikini, sul catatonico e perennemente sorridente Amin e tutti i suoi amici e parenti.
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