Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Smettila di guardare e vivi la tua vita.
Sono sirene, le donne di Abdellatif Kechiche. Si muovono e si dimenano fino allo sfinimento, senza possibilità di riposo, senza fermarsi mai, sudando tutto il loro sudore e emettendo odori e umori che la regia del regista tunisino, adesa alla loro pelle e ai loro movimenti, è in grado di riprodurre e riconsegnare completamente ai sensi dello spettatore, in Mektoub, My Love: Intermezzo lasciato andare in balìa di un'unica situazione, in unità di luogo e praticamente di tempo - fatta eccezione per prologo ed epilogo - in cui comunque tutte le ossessioni di Kechiche possono venire fuori: i flirt, le attrazioni fisiche, il sesso, i deretani femminili, e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è una stordente giostra di luci, culi e colori, talmente ostinata e ossessiva da trasformarsi in un rituale, una celebrazione collettiva del sesso e della vita.
La versione circolata sugli schermi di Cannes 72 segue solo in parte la trama diffusa dal festival stesso. Innanzitutto dura 3 ore e mezza piuttosto che 4 ore, e inoltre limita l'evoluzione della trama a qualche battuta fra i personaggi, riconducendo l'intera azione appunto a quell'unico luogo - che non anticipiamo, benché sia più che prevedibile - in cui tutto avviene, esplode e si ripete, all'infinito, quasi in una performance senza sosta di Body Art. A cambiare, rispetto al primo capitolo, è lo sguardo-filtro: se in Canto Uno era Amin a determinare quell'ostinazione e quell'ossessione per lo sguardo sui corpi femminili, vorace e curioso nonostante la timidezza e la riservatezza, in Intermezzo le sue muse assumono una loro totale indipendenza. All'inizio del film, in cui viene introdotto un nuovo personaggio femminile appassionato di filosofia del mito, si citano appunto i Greci e la loro mitologia. Per questo arriviamo a ritrovare nei movimenti delle donne di Kechiche il canto delle sirene, che cercano la loro preda, la agguantano e ne fanno quello che vogliono. Il risultato è che lo sguardo di Amin, che diviene rilevante solo dopo un'ora di film, non è più condizione sufficiente e necessaria perché possiamo assistere ai rituali di caccia delle nostre sirene. Il mito del mondo di Amin del Canto Uno ha preso autonomia, e può esplodere. Manco a dirlo, la figura mitologica è proprio la Donna, con i suoi desideri, i suoi problemi, le sue ataviche difficoltà così come i suoi assoluti pregi, la sua fierezza e la sua debolezza. Cose che nel film sentiamo pronunciare ma rimangono sempre distanti, impenetrabili, impossibili. Se nella Vita di Adèle Kechiche cercava di impersonare il Senso Femminile, qui denuncia la frustrazione e l'incapacità del maschio di riprodurlo e rappresentarlo del tutto, l'inavvicinabilità di un mondo di cui il maschio vede solo la scorza, la curva, il gesto, lo sguardo accattivante, i capelli lunghi, gli occhi maliziosi, o addirittura l'organo sessuale, il sedere, le fessure, le cosce, il seno. Ma rimangono comunque esseri lontani, che l'uomo non conoscerà neanche tramite l'atto sessuale - tra l'altro destinato al solo godimento della magica creatura. L'uomo vedrà solo la proiezione del proprio desiderio, rassegnandosi all'invisibile.
L'esperienza più estrema del 72esimo Festival di Cannes.
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