Regia di Meryem Benm'barek vedi scheda film
Nonostante si tratti di un buon film, girato con cura e con la giusta tensione narrativa, non lo ritengo completamente convincente, poiché lascia prevalere la descrizione quasi folkloristica di una società che ha elevato a sistema ineliminabile la corruzione e il malcostume, ignorandone volutamente le cause storiche e politiche.
Sofia (Maha Alemi) ha vent’anni e vive in famiglia. È bruttina, ha l’aria perennemente imbronciata e da qualche tempo si sente poco bene, ciò che un po’ preoccupa i suoi genitori, tradizionalisti e benestanti, convinti che sicuramente, grazie alla sua ottima posizione sociale, farà un buon matrimonio. Nessuna donna, a quanto pare, in tutto il Marocco, può considerarsi davvero realizzata se non si sposa, neppure nella quasi europea Casablanca, dove abita. Non ha studiato, a differenza della cugina Lena (Sarah Perles), che ha in animo di diventare medico come suo padre, il francese evoluto che si sta adoperando per coinvolgere i genitori di Sofia in un’operazione molto redditizia di carattere speculativo.
A questo punto arriva il primo colpo di scena del film: Sofia è incinta e sta terminando l’ottavo mese di gravidanza segretamente: nessuno ne è a conoscenza, neppure lei, che, come si dirà in seguito, ha rifiutato fin dall’inizio la propria gravidanza, negandone l’esistenza.
Durante una riunione di famiglia, davanti al tavolo imbandito, dunque, il malessere di Sofia si rivela per quello che è: sta per partorire. Lo comprende Lena, che l’accompagna in tutta fretta all’ospedale, adducendo una scusa per tranquillizzare i convitati, ancora seduti a tavola.
Le cose si complicano subito: le leggi del Marocco prevedono il carcere, fino a un anno, per uomini e donne che hanno avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio; i controlli sono severi, negli ospedali i medici stanno attenti a non essere coinvolti in queste brutte storie e premono perché i colpevoli riparino la violazione della legge sposandosi, ciò che obbliga a rintracciare il “reo” e a celebrare le nozze quanto prima possibile.
Si impone la fine della segretezza: la famiglia viene informata e infine spunta il nome di Omar (Hamza Khafif), un “reo buon uomo” direbbe Manzoni, un poveraccio dei quartieri “bassi” di Casablanca che prima negando, poi ammettendo, acconsente di sposare Sofia, cogliendo, in tal modo, l’opportunità di riscattare dall’emarginazione e dalla miseria se stesso e la propria famiglia.
Più tardi arriverà, con la piena confessione di Sofia, il secondo colpo di scena, che non rivelerò e che ribaltando il primo racconto, mette in chiaro che al di là delle intenzioni del legislatore, le leggi ispirate ai principi religiosi non solo non incrementano i comportamenti virtuosi dei cittadini, ma favoriscono sotterfugi e ipocrisie, impedendo che si sviluppi la normale dialettica degli interessi fra le classi sociali, fondamento delle società democratiche nel mondo contemporaneo.
Si tratta di un buon film, girato con cura e con la giusta suspence, che inaspettatamente ci svela una tragica commedia umana neppure lontanamente immaginata e perciò stesso di grande interesse.
Anche in questo caso, tuttavia, non ritengo questo film completamente convincente.
Riporto, a questo proposito, le esplicite dichiarazioni della regista, nata in Marocco, ma cresciuta ed educata in Belgio: “Con Sofia non ho voluto parlare specificatamente delle divisioni sociali che attraversano il Marocco, o della condizione femminile. Ho voluto semmai raccontare com’è il Paese oggi”.
Ne prendiamo atto e la ringraziamo, anche se sommessamente vorremmo farle notare che in questo modo si è limitata alla descrizione di quella realtà sociale, cosa buona e giusta, quando non si limiti alla sterile constatazione dei dati di fatto, ma diventi la fonte di conoscenza indispensabile per la trasformazione: “attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.
La citazione gramsciana diventa ovvia, soprattutto in presenza dell’elemento di speranza e di cambiamento costituito dal neonato (una neonata, per la precisione), che, purtroppo, qui si riduce a mera funzione narrativa, come viene fatto notare anche da J. S. Chauvin (Cahiers du Cinéma n. 157 del settembre 2018 pag. 29).
Pregevole per molti aspetti, dunque, il film appare quasi la paradossale e folkloristica rappresentazione di un’organizzazione sociale che ha elevato a sistema indistruttibile il malcostume e la corruzione diagante provocata dalla profonda disuguaglianza economica fra le classi, evidentemente poco interessanti per Meryem Benm’Barek. Peccato.
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