Regia di Nanni Loy vedi scheda film
È raro realizzare un film su una istituzione. Figuriamoci quando l’istituzione in questione è quella più importante, il nucleo primigenio di organizzazione umana. Il padre di famiglia, prima di essere la storia del rapporto matrimoniale tra gli architetti di sinistra Marco e Paola, genitori di quattro pargoli venuti un po’ per caso e un po’ per desiderio, è la storia della famiglia nei primi vent’anni di repubblica, un’attenta e ficcante analisi sulle relazioni tra il gruppo e il resto del mondo e su ciò che avviene all’interno di essa, tra gioie effimere e frustrazioni nascoste. Film militante, commedia estremamente malinconica sulle trasformazioni dell’amore (senza essere un film d’amore puro o convenzionale), è probabilmente il miglior risultato della carriera di Nanni Loy, che l’ha scritto assieme a Ruggero Maccari (che faceva parte di quella famiglia di sceneggiatori di cui abbiamo perso lo stampino) basandosi sul sempreverde principio dell’osservazione del reale contemporaneo, con un’amarezza che non si piange mai addosso e una serena libertà civile.
A caratterizzare il carattere fortemente politico di questo film assolutamente importante, c’è anche una fotografia sullo stato dell’urbanistica del dopoguerra e del boom, completamente in pasto alla speculazione edilizia. E non vanno dimenticate le stoccate all’efficacia del metodo Montessori, a cui Marco e Paola si adeguano in maniera quasi succube, ricredendosi poi nel corso degli anni. Nino Manfredi è semplicemente strepitoso, e non gli è da meno un’insolita e bravissima Leslie Caron; oltre al macchiettone di Ugo Tognazzi in un ruolo pensato per Totò (il quale morì dopo i primi giorni di riprese), affianco a loro c’è uno stuolo di grandi caratteristi, dall’apparizione affettuosa ed evanescente di Mario Carotenuto alla dinamica Elsa Vazzoler, fino ad un mesto Sergio Tofano nei panni di un vecchio monarchico: il suo ritorno dal viaggio in Portogallo è struggente.
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