Regia di Brady Corbet vedi scheda film
Presentato a Venezia lo scorso anno, questo film ha deluso molti di coloro che si aspettavano la conferma delle qualità registiche che Brady Corbet aveva manifestato con il precedente L’infanzia di un capo (2017), opera prima di tutto rispetto, che egli, allora non ancora trentenne, aveva realizzato, vantando un bel curriculum nel cinema e in TV.
Al centro di questa pellicola, la storia di Celeste (Raffey Cassidy), ragazzina tredicenne, di vivace intelligenza, amata e coccolata dalla famiglia che, volendo assecondarne l’estro creativo, la iscrive all’High School ad indirizzo artistico, un po’ lontano dall’abitazione, ma molto adatta a lei.
È finita la vacanza di Capodanno nel 1999; gli studenti rientrano a scuola. Un po’ in ritardo arriva anche il compagno di classe, disturbato e balordo, che, armato fino ai denti, sta per scaricare il fucile contro i suoi coetanei dopo aver abbattuto l’insegnante: una strage atroce; una delle tante che periodicamente insanguinano le scuole americane. Celeste è colpita da un pallettone che, quasi miracolosamente (si fa per dire), rimane conficcato nel tratto cervicale delle vertebre…
È il prologo, rapidissimo e choccante, del film, prima dell’elegante avvio dei titoli di testa.
Un anno dopo, Celeste avrebbe lasciato l’ospedale su una sedia a rotelle, distrutta, ma con una gran voglia di vivere e di dimenticare, cosa impossibile: quel pallettone inasportabile era sempre lì a risvegliarne gli incubi, mentre i dolori lancinanti, per il resto della vita ne avrebbero scandito le giornate, costringendola a fare dei calmanti i suoi inseparabili compagni di strada.
Gli esercizi riabilitativi, invece, l’avrebbero rimessa in piedi, senza restituirle, però, l’uso del braccio destro: si infrangevano contro la realtà durissima i sogni di scrivere e disegnare; con cautela, avrebbe potuto danzare, nonché, con un filo di voce, cantare: la sorella Ellie (Stacy Martin) scriveva per lei la musica, accompagnando alla tastiera la sua prima esibizione nell’accogliente coro della parrocchia.
Si vanno delineando ruoli e presenze umane e conflittuali che, insieme a quella del Manager senza nome e senza qualità (Jude Law), incrociato per caso, e immediatamente interessato alle sue performance, le avrebbero permesso di diventare una star acclamata (ora interpretata da Natalie Portman), ispiratrice, forse, con le sue maschere luminose e scintillanti, di un gravissimo attentato terroristico sulle spiagge della Croazia, di cui i giornali, i social media e le TV in cerca di scandali, avrebbero voluto informare un pubblico, a sua volta pronto a distruggere l’idolo di un tempo.
Il regista mostra, a questo punto della storia, un’incertezza ideativa che gli impedisce di concludere in modo convincente le tracce narrative che aveva abilmente lasciato intuire nella prima parte del film.
Puntando quasi eclusivamente sulla centralità della recitazione di una Natalie Portman più del solito urlante e isterica, che alla grande gigioneggia autocitandosi, Corbet perde l’occasione di approfondire gli aspetti oscuri delle vicende di tutti i suoi personaggi, i cui conflitti percorrono sotterranei l’intero film; preferisce accontentarsi di banalizzarli riducendo il male all’ opposizione fra tenebre e luce ed evocando addirittura, senza tema del ridicolo, il patto col diavolo di faustiana memoria.
Presentato alla rassegna veneziana dello scorso anno, questo film ha deluso molti di coloro che si aspettavano la conferma delle qualità di regia che Brady Corbet aveva manifestato con il precedente L’infanzia di un capo (2017), opera prima di tutto rispetto, che egli, allora non ancora trentenne, aveva realizzato, vantando un passato di attore, sceneggiatore, autore televisivo: un bel curriculum, insomma.
Arrivato, con il solito ritardo, nelle nostre sale, il film, anche per me, è stato fonte di irritante delusione. Si può perdere.
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