Regia di Brady Corbet vedi scheda film
Breve commento sul film che nel bene o nel male sarà una delle vere eredità della 75a mostra del cinema di Venezia: Vox Lux, Brady Corbet alla regia per la seconda volta, spaccato analitico sull'oggi e sui collegamenti sottocutanei che stanno fra la violenza e lo show business, fra l'indifferenza e la sete di potere. Si faranno, purtroppo, spoiler.
Un film che deve molto a Childhood of a Leader e di cui riprende anche l'estenuante parlantina in ambito sceneggiatoriale. La patina leccata dell'opera prima però scompare a favore di una grana decisamente più respingente, un formato ridotto e una maggiore volontà di demolire lo scheletro strutturale del film per ricondurlo al suo obbiettivo.
Il vero problema di Vox Lux sta proprio nel suo pregio: deformare la materia filmica con il solo scopo monodirezionale di fare quello che annuncia la scritta nel finale, "una riflessione sul XXI secolo". Il film inizia con una strage in una scuola - i titoli di testa citano con sfacciataggine non del tutto giustificata Elephant di Van Sant - e prosegue con una strage su una spiaggia, eventi paralleli che in qualche modo, in due momenti diversi, influenzano la vita di Celeste, giovane bambina prodigio dalla voce sognante, trasformata lentamente in una star pop di successo mondiale. Se la prima parte percorre proprio le dimensioni dell'Infanzia del capo, con le ambiguità etiche che si fanno strada nell'età infantile e dànno luogo ad atti ininterpretabili di cinismo, la seconda parte diventa quasi Steve Jobs di Danny Boyle, con dialoghi al vetriolo che delucidano, seppur indirettamente, sull'invadente dietrologia interrogativa del film: in che modo analizzare un mondo in cui la prima volta una strage genera il successo di una cantante, e la seconda volta è la cantante a generare il successo degli stragisti (che indossano la maschera della cantante stessa)? Il film, che pure parrebbe azzardare qualcosa sul versante formale, si tiene a dovuta distanza dalla rovente materia trattata, attualissima e di grossissimo interesse. Incapace di immergersi sia in quel materiale, sia nelle conseguenze della sua stessa analisi, predilige uno sguardo hanekiano ovattato in cui una voce fuoricampo (Willem Dafoe) annuncia frasi apocalittiche che associano la vita e le azioni di Celeste a premonizioni di una qualche fine imminente.
Di certo il fatalismo di Vox Lux fa ancora più impressione di quello di Childhood, anche solo perché è un fatalismo a porte aperte, sul futuro che ancora ci attende, e che sembrerebbe portare a nuove forme tirraniche; ma è il sensazionalismo a regnare sovrano, soprattutto nella distanza così netta e così poco "sincronizzata" con il suono con cui Corbet riprende il finale del film. Chi inneggia al capolavoro parla del nuovo Nashville, trascurando la natura immersiva, stratificata e ambigua del film di Altman. Qui il film, pur trasmettendo qualcosa di scomodo, trasmette qualcosa di troppo nitido, e lo fa con un nitore che non pensa di avere, e che invece ha, proprio perché il film, esattamente alla maniera di una tirannide che pure storicamente scongiurerebbe, dice quello che vuole dire e nient'altro, e lo spettatore inevitabilmente, sotto la mole di intenzioni, con la sua coscienza e la sua elasticità mentale, muore.
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