Regia di Felix Van Groeningen vedi scheda film
Il regista belga Felix Van Groeningen sembra far di tutto per complicarsi la vita, scegliendo per la prima mezzora abbondante una struttura diseguale e confusa che rende ostico relazionarsi con la timeline degli eventi e prender confidenza con i protagonisti, nonostante a prestargli il volto siano due attori in stato di grazia.
Nic è un diciottenne pieno di talento artistico, un bravo studente con progetti di college che fa teatro, scrive, ama la pallanuoto ed il surf. Conduce una vita agiata e vive con il padre David (che da sua madre ha divorziato) in una famiglia felice che lo adora. Eppure, senza una ragione apparente, è caduto nel tunnel della droga. Lo ha fatto progressivamente, iniziando con qualche spinello in tarda adolescenza per poi pian piano provare praticamente tutto fino a diventare schiavo della metanfetamina. Nicholas e David Sheff esistono davvero, ed hanno scritto ciascuno di proprio pugno due autobiografie che viaggiano in parallelo e descrivono gli alti e bassi del rapporto distruttivo del ragazzo con la tossicodipendenza, fatto di fughe, ritorni e promesse tradite, ma anche dell'amore fortissimo che li mantiene sempre e comunque indispensabili l'uno all'altro.
A prendere questi due libri e trasformarli in una sceneggiatura è il regista belga Felix Van Groeningen, quello di Alabama Monroe, qui al suo primo film in lingua inglese, che però sembra far di tutto per complicarsi la vita, scegliendo per la prima mezzora abbondante una struttura diseguale e confusa che rende ostico relazionarsi con la timeline degli eventi e prender confidenza con i protagonisti, nonostante a prestargli il volto siano due attori in stato di grazia: un dolente e frustrato Steve Carrell nel ruolo del padre, e soprattutto Timothée Chalamet, un giovane prodigio per il quale già in Call Me by Your Name ci si era sperticati negli elogi, in quello del figlio. Sono loro due e le storie dei loro personaggi e del loro legame il valore aggiunto (e fino a un certo punto anche l'unico) di questo Beautiful Boy.
Quando poi il racconto inizia a diventare più lineare e l'ansia di accumulare del regista si placa, così come la sua tendenza a sopperire alla confusione e alla mancanza di ritmo dando un ordine alla prima ed instillando artificialmente il secondo attraverso la facile scorciatoia di una colonna sonora a tutto rock (che nella succitata prima mezzora mette in fila Mogwai, Nirvana, Tim Buckley e Sigur Rós), il film trova la sua strada, quella che lo porta, senza strafare e in maniera sincera, seppur con qualche ripetizione di troppo, a voler essere un monito per chi pensa che la tossicodipendenza possa colpire solo chi vive nel disagio, e a mettere in guardia su come il percorso per uscirne non sia affatto scritto ma sia anzi un sentiero selvaggio lastricato di sofferenza.
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