Regia di Julian Schnabel vedi scheda film
Ventidue anni dopo “Basquiat”, opera dedicata al noto artista newyorkese, il regista e pittore Julian Schnabel è tornato a occuparsi di arte con “Van Gogh: sulla soglia dell’eternità”. Presentata alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia il 3 settembre 2018, la pellicola incentrata sugli ultimi anni della vita di Vincent Van Gogh ha procurato decisi apprezzamenti soprattutto a Willem Dafoe, la cui interpretazione del protagonista gli è valsa una Coppa Volpi e la candidatura all’Oscar. La qualità della recitazione di Dafoe merita invero un elogio: nell’opera, il volto dell’attore si materializza come mimetico smarrimento e manifesta una pregnanza fisio-semantica tale da rivelare con toccante immediatezza le pulsazioni emozionali di uno spirito ingarbugliato quale fu Van Gogh. Accanto a Dafoe, un cast più che degno nel quale spicca Mads Mikkelsen, ottimo nelle vesti del sacerdote.
Strutturalmente, due i solchi lungo i quali procede la pellicola: da un lato, la trama fatta di eventi concatenati che narrano alcuni dei momenti più drammatici attraversati dal pittore nella fase conclusiva della sua esistenza (dalle nevrosi alla recisione di un orecchio, fino alla morte misteriosa); dall’altro, le scene in cui Schnabel, anche attraverso la magnifica fotografia di Benoît Delhomme, costruisce un atemporale e incantevole incontro tra interiorità: la propria e quella dell’artista. Il Van Gogh derivante dall’intreccio con lo sguardo di Schnabel, ora brutalizzato dall’ira ora accoccolato tra le braccia del fratello Theo (R. Friend), pare avvolto da un sottile manto di riflessi ottocenteschi. Restio ai combattivi slanci dell’amico-nemico Gauguin (O. Isaac), si rivela affine ad alcuni degli artisti intrisi d’eremitico spiritualismo raccontati da Gogol’ o ad alcuni personaggi dostoevskijani asserragliati nelle proprie esasperate tensioni verso e con il divino. Un Van Gogh mai pago, però, del mondo: il luogo dove subisce l’emarginazione e dove - libero nel paesaggio rurale - tocca e assapora la presenza compiuta dell’opera di Dio. Non vengono trascurati, infatti, due dei tratti più distintivi dell’arte di Van Gogh, entrambi legati al dominio naturale: la percezione della materia, che in parte avvicina l’olandese alle produzioni dello stesso Schnabel, e la potenza della luce, elemento che ha affascinato anche artisti contemporanei come Hockney. Diversi sono gli espedienti cui Schnabel ricorre per sostanziare il proprio incontro con l’artista: si pensi alle scene che rendono il disagio di Van Gogh tramite stordimenti sonori e visibili fondi di lacrima, o a quelle in cui la camera segue l’attore con amatoriale spontaneità, svuotando la pellicola di qualsiasi tono storicistico e declinandola come vivido ritratto al presente.
Con quest’opera Schnabel penetra l’abisso di ossessioni e disperazione che segnò la vita di Van Gogh, offrendo compassione a un uomo che visse abbarbicato alle vertigini dello spirito, sulla soglia dell’eternità. E l’esito commuove.
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