Regia di Julian Schnabel vedi scheda film
Già autore di illustri biografie (Basquiat, Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla), Julian Schnabel rende omaggio a Vincent Van Gogh, il più tormentato dei pittori, in At Eternity’s Gate, che sin dalla prima inquadratura mette in chiaro le carte: non si tratta di ripercorrerne tutta la vita ma solo un frangente, quegli ultimi due anni che lo portarono dritto alla morte. La vicenda ha inizio nel 1887 quando Van Gogh è costretto a ritirare i quadri dal restaurant de Châtelet a causa dell’assenza di visitatori. Si chiarisce così che si è di fronte davanti a un pittore che, rifiutando ogni tradizionalismo e discostandosi dagli impressionisti (che apprezza), non riesce a vivere della sua arte. Disposto per un po’ di tabacco e un bicchiere di vino a dare in cambio uno dei suoi schizzi, Van Gogh è un uomo solo che può contare sull’appoggio del fratello Theo, un venditore di quadri che non gli fa mai mancare denaro o cure, e sull’amicizia con Paul Gauguin, interessato però in quel frangente a scoprire nuovi mondi esotici.
Curioso di studiare la natura e le sue luci (è nella natura che si nasconde la bellezza), Van Gogh si sposta nelle campagne di Arles, dove riesce ad affittare con pochi soldi una stanza spartana. Nel giro di poco tempo, si lascia letteralmente conquistare dalla natura del posto, dagli spazi aperti e dai fiori. Interiorizza tutto ciò che la natura gli offre: colori, suoni, odori e persino gusti. Dipinge e realizza schizzi in continuazione, non lasciandosi avvincere dalla noia. Chi sembra invece non volerlo abbandonare è la solitudine: lo strano atteggiamento di Vincent, le sue visioni e i suoi comportamenti non sempre di facile comprensione, spingono la gente del posto a isolarlo e a considerarlo diverso, pazzo. Alla ricerca dell’eternità, fine ultimo delle sue pitture, Vincent finisce per essere accusato di molestie nei confronti di un bambino e per tale ragione, dopo un pestaggio, si ritrova ricoverato in un ospedale psichiatrico, ambiente da cui lo salva il fratello Theo.
Consapevole di essere affetto da momenti di buio e angoscia di cui non ricorda i dettagli, manifesta al fratello il desiderio di rivedere Gauguin, fatto rientrare in Francia con uno stratagemma dallo stesso Theo. Con l’amico, Van Gogh vive alcuni dei suoi più sereni giorni ma la convivenza, dapprima incentrata sulla loro diversa concezione di arte (“i tuoi quadri sono come ricoperti d’argilla… sono più sculture che pitture”), si rivela impossibile.
La ripartenza di Gauguin segna l’inizio della parabola discendente di Vincent. Il taglio dell’orecchio (da mandare come dono a Gauguin), il ricovero nella casa di cura di Saint-Rémy-de-Provence, la fuga dalla stessa e lo stupro di una giovane fattrice sulla strada per Arles, conducono il pittore dritto in manicomio, dove da uno scambio di batture con un prete si intuisce quanta lucida follia lo attraversi, quali battaglie interiori viva e quanta rabbia conservi. La natura è l’unico dono che Dio mi ha fatto. Dio può anche sbagliarsi con i tempi: mi fa dipingere per coloro che non sono ancora nati. Mi sento come un esule, un pellegrino sulla Terra, confessa al religioso che lo rimette in libertà.
Tornato libero, Van Gogh si ritrova a vivere ad Auvers-sur-Oise, dove stringe amicizie, sembra aver trovato i primi successi e torna a dipingere e a condividere la sua visione del mondo. Qui, trova però anche la morte in circostanze poco chiare il 27 luglio 1890, dopo aver dipinto in pochissimo tempo qualcosa come 80 quadri.
Basandosi più sul lavoro artistico di Van Gogh che su quello che raccontano pedissequamente le biografie, Schnabel mette in scena la sensibilità con cui l’artista si relazionava al mondo che cercava di capire attraverso le sue opere. Le sue rappresentazioni parlavano per lui ed esprimevano il suo punto di vista: era questo il fine ultimo del suo lavoro che, incompreso ai contemporanei, tramandava al futuro, senza interrogarsi mai su valori che non fossero prettamente artistici. Il punto di vista che sceglie il regista è quello del pittore: la telecamera diventano gli occhi di Van Gogh. Tramite essa, percepiamo come il pittore vedeva la vita, cosa si affacciava alla sua mente e quale spirito funesto lo inseguiva. I colori che avrebbe dipinto, le distese di girasoli secchi, i ritratti dei volti a lui più congeniali e gli umori più felici vengono restituiti in tutto il loro splendore mentre i momenti di tormento sono immersi in un alone giallo, le immagini diventano sporche e la stabilità traballa: tutto si confonde, non esistono linee e il mondo si capovolge.
Come Van Gogh, Schnabel si interroga sull’arte. Cos’è l’ispirazione e cosa la creazione artistica sono le tematiche con cui si confronta. Il compito dell’artista è quello di non inventare nulla ma di rielaborare semmai ciò che già esiste. Il colpo di genio consiste nell’agire d’impeto, d’impulso, senza studiare a tavolino il da farsi (come i pittori che Van Gogh ama, da Goya all’italiano Veronese). Senza schizzi preparatori o senza storyboard, come si addice più al mondo del cinema. La natura dunque come ispirazione e le proprie opere come famiglia. L’aspirazione all’eternità come fine ultimo dell’opera non è forse quella che tormenta chiunque si cimenti con l’arte?
Willem Dafoe nei panni del protagonista si rende perfetto Gesù pronto al martirio. L’immagine del Cristo è evocata sia visivamente sia verbalmente nel dialogo che Van Gogh ha con il prete in manicomio. Con i suoi occhi chiari e il suo volto anomalo, Dafoe approccia il personaggio in sottrazione e non eccede nella sregolatezza di cui spesso i libri parlano. Era facile farsi prendere la mano e scivolare nel patetico: Dafoe, da attore navigato, è cosciente del limite di sofferenza in scena che non va oltrepassato e non teme il confronto con il Kirk Douglas di Brama di vivere. Ha anche la fortuna di essere sempre al centro dell’inquadratura e di divenire egli stesso scultura vivente nelle mani del regista. Lo affiancano piacevolmente Oscar Isaac (un Gauguin che, seppur poco in scena, ascia il segno), Emmanuelle Seigner (è madame Ginoux) e Rupert Friend (è Theo). Diversi poi i camei d’eccezione, da Mathieu Amalric (è il dottor Gachet) a Mads Mikkelsen (è il prete del manicomio).
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