Regia di Joachim Lafosse vedi scheda film
Venezia 75 – Giornate degli autori.
Tanto è facile perdersi, quanto è difficile ritrovarsi, anche qualora le persone coinvolte siano legate dal più profondo dei rapporti di sangue. Nel primo caso, basta prendere, o subire, una decisione tranciante e il gioco è fatto. Nel secondo, si tratta di un lavoro ai fianchi, lungo e impegnativo, senza alcuna certezza di arrivare all’ottenimento del risultato auspicato. D’altronde, in mezzo a queste due fasi sono state immagazzinate esperienze, con relativi traumi a corredo, modellando caratteri su scale indipendenti, tali da frapporsi al tentativo di cicatrizzare la lontananza.
Con due cavalli e lo stretto necessario per la sopravvivenza, Sybille (Virginie Efira) e suo figlio Samuel (Kacey Mottet Klein) affrontano un viaggio attraverso gli sconfinati territori del Kirghizistan.
Mentre l’ambiente inospitale crea continue prove da superare e presenta pericoli imprevedibili, madre e figlio cercheranno di ricostruire un rapporto mai veramente realizzato. Soprattutto, Samuel ha un carattere burrascoso, che Sybille non riesce a domare, una barriera invisibile ardua da scardinare.
Keep going è il primo film che Joaquim Lafosse adatta da un romanzo, nella fattispecie scritto da Laurent Mauvignier nel 2016, e potrebbe tranquillamente essere l’ideale prosecuzione di Dopo l’amore, con una famiglia spezzata precocemente e un tentativo postdatato di riallacciare uno dei legami più profondi che esista, ossia quello esistente tra una madre e suo figlio.
Tuttavia, Keep going non vanta la medesima e chirurgica lucidità. Entrando nello specifico, l’approccio è preciso, inserisce i due protagonisti in un panorama con richiami da western introspettivo e centellina le parole, suggerendo la voragine che divide madre e figlio, con un territorio sconfinato, mozzafiato e ostile, a ergersi come coprotagonista di lusso.
Un viaggio in mezzo al nulla, lontano da ogni richiamo esterno e distrazione, che si scopre gradatamente e nel farlo, invece di sbocciare, deperisce. Improvvisamente, in più di una circostanza, l’esposizione sente l’esigenza di ricorrere a tante parole per comporsi e completarsi, verbosità che finiscono per intaccarne l’uniformità, danneggiandone l’integrità.
Allo stesso modo, i caratteri faticano ad amalgamarsi, soprattutto quando subentrano fattori esterni, ad esempio nella parte finale, troppo strillata ed eclatante.
Rimangono comunque temi importanti, quali sono la difficoltà di stare al mondo e riuscire a condividere uno spazio destinato a un rapporto umano, con tanto di scarto generazionale, così che i due protagonisti sono sottoposti a una dura prova emotiva. Virginie Efira agguanta la maturità distaccandosi da quelle commedie che l’hanno resa popolare (da noi, Per sfortuna che ci sei, 20 anni di meno e Un amore all’altezza), mentre Kacey Mottet Klein continua un percorso di crescita che, da Home e Sister di Ursula Meier fino a Quando hai 17 anni passando per Keeper, lo ha visto evitare con oculatezza le scelte accomodanti.
Keep going scopre i nervi fino a farli arrivare a fior di pelle, tra rancori e riottosità, stati d’animo derivanti da traumi segnanti, finendo nel pantano, uno dei tanti pericoli che viene effettivamente affrontato, dal quale ne esce con virulenza e occasionalità, senza individuare un punto d’incontro sufficientemente corposo per tenere insieme gli elementi focali che lo alimentano.
Contraddittorio e volubile.
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