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L'ora del lupo

Regia di Alistair Banks Griffin vedi scheda film

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La recensione su L'ora del lupo

di mck
7 stelle

Season in the Abyss.

 

 

In una buio pece notte newyorkese della Summer of Sam, quella torrida e afosa stagione del ‘77, venuta a insudorare una lunga fase di decadenza per la Grande Mela ricolma e strabordante di cronica guerriglia urbana continua fra gang rivali, forze di polizia e cittadini prevalentemente innocenti/inermi alimentata dalla crisi/depressione economica, dal dilagare per mano delle mafie delle droghe pesanti e da un’amministrazione legiferante forse non all’altezza del compito assegnatole (lo scettro/testimone di sindaco l’anno successivo passò dalle mani, sempre democratiche, di Beame a quelle di Koch: da “Taxi Driver” a “the Deuce”), col bagliore infernale dei perpetui focolai che riattizzano le braci insepolte dei reiterat’incendi permanenti a rischiarare il manto nero creato dal grande blackout avvenuto a causa di una serie di scariche di fulmini a secco lungo la valle dell’Hudson a cavallo fra il 13 e il 14 luglio, con solo il pulsante faro di segnalazione dell’antenna del WTC-1, la Torre Nord, a dettare le coordinate della propria posizione nel mondo/metropoli alla popolazione, può una storia che sfiora più volte, ripetutamente, insistentemente, pervicacemente il ridicolo grazie al carattere principale irritante, diventar ed essere anche, tutto sommato, un bel film? Alla luce di quel finale (“à la” Full Metal Jacket...), che rischiara e trasforma le per nulla metaforiche macerie fumanti in un’alba disottenebrante di possibilità, sì.

 


Alistair Banks Griffin torna alla regia di un lungometraggio (dopo due corti sperimental-documentari dedicati uno all’arte visuale, all’architettura/design e alle performance di Daniel Arsham & Snarkitecure, e l’altro... alla collezione autunno-inverno 2016-’17 della factory Valentino) da lui interamente scritto (suggendo in minima parte alle radici del "the Nesting" di Armand Weston) a quasi dieci anni di distanza dall’ottimo esordio “mumblecore-faulkneriano” di “Two Gates of Sleep” e, pur compiendo un passo indietro e tenendo conto di tutte le attenuanti del caso legate alla “fatidica” opera seconda (che poi è l’argomento di cui il film tratta…), alla lunga e alla fine convince.

 


Ingmar Bergman e Spike Lee c’entrano (il South Bronx al posto dell’isola di Fårö, e l’auto-sabotaggio artistico in vece del panico collettivo causato da son-of-sam, ad oggi impegnato a scontare le sei condanne a vita cumulative), se pur poco: l’uno dal punto di vista psico-artistico e fantastico, l’altro da quello socio-politico e storico, ma la vera lezione assimilata ed espressa dal film è quella rappresentata dalla letteratura del “Nuovo Canone”, mutuando un’espressione utilizzata da Luca Briasco nel suo bignami monumentale “Americana” (che per il postmoderno-massimalista indica Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut e Don De Lillo, per il minimalismo enumera John Cheever, Richard Yates e Raymond Carver, per il serbatoio dei generi contempla Stephen King, Jim Thompson, Philip K. Dick e James Ellroy, per la Grande Sintesi dei Generi annovera Cormac McCarthy, Philip Roth, John Updike e Toni Morrison, per l’avanguardia elenca Richard Powers, David Foster Wallace, William T. Wollmann, Jennifer Egan e George Saunders e per il realismo include E.L. Doctorow, Elisabeth Strout, Richard Ford e Joyce Carol Oates), ovvero, in particolare e soprattutto, quella di Jonathan Lethem (e, in minor parte, quelle di Dave Eggers, Michael Chabon, Jonathan Safran Foer, Jonathan Franzen, Lauren Groff e Jeffrey Eugenides), e in seconda istanza, ma più storico-geograficamente precisa, quella di Garth Risk Hallberg e il suo - per l’appunto tautologico rispetto al contesto in esame - “City on Fire” (con un pensiero anche al “gemello”, ma rivolto alla West Coast e alla Los Angeles dei “giorni di - ancora -fuoco” susseguenti all’assoluzione dei poliziotti autori del pestaggio di cui fu vittima Rodney King, “All Involved” di Ryan Gattis). Al sommo elenco mi permetto di aggiungere il nome di Percival Everett.

 

• Mattina del 14 luglio 1977. (© AP.)

(Brooklyn.)

(East Side Manhattan.)

(Harlem.)


Ma questa è una storia, oltre che di New York, di una romanziera, esponente della ControCultura degli anni '60, e della sua “malattia/disordine”, un po’ agorafobia, un po’ sindrome da accumulo patologico e un po’ blocco dello scrittore, tutto reciprocamente collegato in uno gnommero di causa-effetto viceversico, il cui primo, monumentale romanzo può essere considerato una via di mezzo fra il seminale “JR” di William Gaddis e il più canonico “A Man in Full” di Tom Wolfe.

 


Naomi Watts (“Mullholland Drive”, “Eastern Promises”, “You Will Meet a Tall Dark Stranger”, “While We're Young”, “Twin Peaks - 3: the Return”) ha l’improbo compito di rendere empatica la raffigurazione di un tale personaggio a tratti respingente, e ci riesce. Accompagnandola fuori dall’Abisso.

"Guarda, Lisa! Mettendo in pausa al momento giusto si può persino individuare il punto esatto in cui il suo cuore si spezza a metà!"

 

 

I 4 “fantasmi”/visitatori bergmaniani sono interpretati eccellentemente da Jennifer Ehle (“Zero Dark Thirty”, “Vox Lux”, “Saint Maud”), l’amica di sempre (allontanata dopo l’exploit di “the Patriarch”, il Grande Romanzo Americano della protagonista), Kelvin Harrison (“It Comes At Night”), il nuovo fattorino che le porta dalla drogheria la spesa quotidiana, Jeremy Bobb (“the Knick”, “ManHunt”, “GodLess”, “Russian Doll”, “the Kitchen”, “the OutSider”), il viscido/laido poliziotto, ed Emory Cohen (“the OA”, “SweetHeart”), l’uomo da marciapiede / american gigolò.


Fotografia: Khalid Mohtaseb (“Uncle Frank”). Montaggio: Robert Mead (“Fractured”).
Musiche come sempre ottime degli stakanovisti Danny Bensi & Saunder Jurriaans (un film per tutti: “Enemy”).

 

 

Da confrontare - se pur collateralmente - con i recenti e di poco successivi "Black Bear" e "Horse Girl", ottimi e un po' meglio riusciti.

 

 

Nato per mere ragioni alimentari, trascrivendo vecchie note e impressioni registrate su bobine di nastro magnetico, e cresciuto nel tempo, evolvendosi in qualcos'altro, ora che "La Stagione nell’Abisso" è terminato, sembra pure un bel libro.

* * * (¼) ½     

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