Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
La regista Ann Hui (che interpreta se stesa) sta girando un film nella città di Taipei. Una sequenza prevede il galleggiamento di un cadavere nel fiume Tanshui. Usano un manichino ma l'effetto non è mai quello desiderato. Il giovane Xiao-Kang (Lee Kang-sheng), che si trova sul set come semplice curioso, accetta di fare da controfigura e si immerge nelle fetide acque del fiume. Dopo quest'esperienza gli viene un fastidiosissimo torcicollo che non cessa un attimo di tormentarlo. Gira per diversi studi medici ma nessuna cura sembra efficace. L'accompagnano nel suo continuo girovagare il padre (Miao Tien) e la madre (Lu Hsiao-ling), un habituè di saune frequentate da omosessuali il primo, amante di un trafficante di videocassette pornografiche la seconda.
"Il fiume" (Orso d'argento a Berlino) è il terzo lungometraggio del taiwanese Tsai Ming-liang (Leone d'oro a Venezia nel 1994 con "Vive l'amour"), un film di disturbante tristezza, colmo di ferite esistenziali che non si cicatrizzano e percorso da una incomunicabilità profonda causata dalla reciproca estraneità affettiva. Una storia sulla desolante malinconia di una famiglia in stato di sfratto, dove il malessere fisico riflette l'incapacità del singolo di venire a capo dei suoi disagi interiori e il piacere dei corpi evoca la solitudine metropolitana di due procacciatori di sensazioni estreme. Mostrandoci lo stato di salute di una famiglia particolare, Ming-liang porta all’estremo il discorso sui possibili effetti alienanti che una qualsiasi metropoli "occidentalizzata" può produrre sulle persone che non ce la fanno a reggere il passo, quelle che si accontentano degli scarti nutrendosi di piaceri effimeri e di emozioni strozzate in gola. Aderendo alla vita di Xiao-Kang e dei suoi genitori, facendoci avvertire per intero la loro inadeguatezza sociale e il grado delle rispettive precarietà emotive. Privilegiando il potere evocativo di lunghi silenzi alla pura descrittività delle parole, la fisica carnalità di corpi messi in penombra alla lucentezza di una loro mortificante nudità, con uno stile asciutto e sufficientemente distaccato, perseguendo un idea di realismo che è nelle stesse cose che si rappresentano, nei pianti di dolore e nei gemiti di piacere, nella natura sistemica di una sconfortante incomunicabilità e nell’acqua che penetra furtiva nelle crepe dell’animo. L’acqua appunto, che, quasi alla maniera di Tarkovskij, assurge a simbolo di una possibile purificazione dei corpi, l’elemento da cui tutto inizia e a cui tutto tende. L’acqua inquinata del fiume e quella innocua della doccia, l’acqua salubre dei bagni della sauna e quella che scende a cascata dal soffitto della casa. Acqua che arriva col suo flusso continuo ad inondare di sensazioni malsane i corpi malconci di tre anime in pena e a certificare lo stato di latente abbandono di un intera società. Grande film.
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