Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Se qualche incosciente avesse ancora dei dubbi sull’abilità registica di Clint Eastwood, dovrebbe vedere immediatamente Potere assoluto. È un thriller magnificamente strutturato nelle sue ambizioni piccole ed alla mano, un solido, teso e vibrante tassello del trasversale discorso eastwoodiano che abbraccia le responsabilità degli uomini e la deriva delle responsabilità stesse. Non punta ad essere un grande film di denuncia che offre uno squallido ritratto dell’uomo più potente del mondo, non è il film politico che sulla carta ci si aspetta nonostante al centro della scena ci sia la Casa Bianca e i servizi segreti. Come spesso gli accade, a Clint (e prima ancora al suo sceneggiatore, l’aguzzo William Goldman che ha adattato il romanzo di David Baldacci) interessa analizzare i risvolti dell’amicizia maschia (in questo caso tra il presidente e il vecchio amico cornuto), riflettere mai banalmente sulla figura del padre (non solo evidentemente Clint stesso, pedina della solitudine e della fuga, ma anche il padre della patria che teoricamente il presidente dovrebbe essere e non è), mescolare magistralmente ma anche naturalmente visibile ed invisibile con echi perfino hitchockiani (il primo quarto d’ora è un saggio di regia).
Inoltre conferma la sua dote di innato osservatore del mestiere altrui, e rifacendosi a suoi maestri come Leone e per certi versi Siegel, si concede il lusso dell’ironia, palese e beffarda quando ci ritroviamo d’improvviso all’ingresso del Watergate Hotel. E ci sarà un motivo se la sequenza che più rimane impressa è l’ipocrita e malefico ballo tra il presidente e il capo dello staff. Ah, tra l’altro, attori da urlo, da un Gene Hackman cinico e detestabile alla fedele Judy Davis, passando per i romantici e sgualciti Laura Linney e Ed Harris fino alla partecipazione maiuscola e sorprendente del grande vecchio E. G. Marshall, personaggio che semina nello spettatore il dubbio su cosa sia davvero giusto e cosa sia davvero sbagliato.
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