Regia di Carlo Lizzani vedi scheda film
Come sempre, il modo migliore per ricordare un cineasta che se ne va è tornare alla sua opera. Non si può parlare di un uomo di cinema se non si conosce il suo cinema. Il caso di Carlo Lizzani è, però, assai particolare, perché nella sua sessantennale carriera ha lasciato il segno in forme molteplici: regista, sceneggiatore, produttore, attore, critico, saggista, operatore culturale. All’indomani della tragica scomparsa di Lizzani, espressioni come “uomo di cinema a tutto tondo” si sprecano, ma benché siano retoriche rispondono al vero. Non ha diretto capolavori, ma la sua filmografia è un esempio emblematico di magnifica coerenza, una storia d’Italia in 35 mm che si serve della cronaca e della letteratura, una carrellata di oneste pellicole popolari nel senso più didattico del termine. Una carriera costellata di prove imprescindibili (Banditi a Milano, Il processo di Verona, Achtung! Banditi!, Cronache di poveri amanti, Svegliati e uccidi), di prodotti meno ispirati (Mussolini: ultimo atto, Crazy Joe, Storie di vita e malavita, La Celestina P… R…) e di chicche imprevedibili (La vita agra, Mamma Ebe, Il gobbo), nella quale abbiamo deciso di isolare un film un po’ dimenticato, vagamente riuscito e quasi anomalo nella carriera di Lizzani.
Roma bene fa parte di una ideale trilogia sulle città italiane negli anni tra la contestazione e il terrorismo (gli altri sono Torino nera e San Balila ore 20) e s’inserisce nella via civile del cinema di Lizzani. Al centro della scena, un caleidoscopio delle volgarità e delle bizze dell’alta borghesia capitolina, una commistione di satira di costume, poliziottesco ante litteram e metafora sociale. Su sceneggiatura di Vincenzoni e Badalucco, Lizzani costruisce, con il piglio della cronachistica che gli è congeniale, un mosaico con obiettivi soprattutto socio-culturali (il degrado di una borghesia imbrigliata soltanto in avidità, cupidigia, lussuria, danaro e lontana dal mondo “normale”) in cui, forse, gli elementi più deboli sono rappresentati da alcuni personaggi privi di una reale funzione al di là della figurina e del bozzetto (almeno venti personaggi più o meno principali, il più importante cast della carriera di Lizzani).
Una Dolce vita undici anni dopo, una costola della Terrazza di nove anni più tardi e una Grande bellezza quarantadue anni prima, è un film-cerniera tra gli affreschi corali della romanità per ambizione e generosità, ma il fin troppo esplicito utilizzo del prevaricante Nino Manfredi (un po’ annoiato) come portaparola dell’autore ha i suoi limiti strutturali e un moralismo probabilmente necessario, così come ha i suoi limiti l’evidente antipatia degli autori nei confronti dei caratteri volutamente eccessivi della Roma bene. La metafora finale, inoltre, è abbastanza programmatica nella sua componente grottesca. In ogni caso, un film in bilico tra il glorioso fallimento e il culto inevitabile, impreziosito dalle prove borderline di Vittorio Caprioli, Virna Lisi, Franco Fabrizi e Gastone Moschin. Sui titoli di coda, una canzone dell’allora sconosciuto Riccardo Cocciante.
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