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Ju Dou

Regia di Zhang Yimou, Yang Fengliang vedi scheda film

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La recensione su Ju Dou

di degoffro
8 stelle

Tratto dal racconto "Fuxi Fuxi" di Liu Heng che firma altresì la sceneggiatura. Distribuito in Italia soltanto dopo il clamoroso successo internazionale di "Lanterne rosse", pur essendo precedente. E' il secondo film, dopo "Sorgo rosso", di una notevole e vibrante trilogia che il regista ha voluto dedicare a figure femminili forti, determinate e combattive (l'altro titolo è "La storia di Qui Ju"). "Ju Dou" è prima di tutto una appassionante tragedia greca moderna, ineluttabile nel suo evolversi: un figlio si vendica della morte accidentale del presunto padre, da lui stesso involontariamente provocata, uccidendo il vero padre: ristabilisce in questo modo l'ordine offeso, ritorcendo verso i genitori l'astio cruento della famiglia. Il film può però anche essere letto quasi come la versione orientale de "Il postino suona sempre due volte". Per lo meno nella prima parte si rispetta a grandi linee la storia del celebre romanzo di James Cain. Un uomo viene assunto come operaio in una fabbrica e si innamora della moglie del titolare, che peraltro è suo zio. La donna lo seduce, esplode la passione e cerca di convincerlo ad eliminare l'anziano marito, brutale, sadico, violento, crudele che abusa di lei pur di avere un figlio (nella notte Yang Tian Quing ascolta impotente le urla disperate della donna che controvoglia soggiace al marito e il giorno dopo mentre la spia, di nascosto, da una fessura, vede il suo sinuoso e sensuale corpo straziato e segnato dalle botte del marito). Come il precedente "Sorgo rosso" (tra i due film Zhang ha realizzato l'inedito in Occidente "Operazione Puma"), "Ju Dou" è un'opera fortemente contraddistinta dal rosso (della tinta delle stoffe prodotte, della passione tra Ju Dou e Yang Tian Quing, della rabbia di Yang Jin-Shan, della vendetta di Tin Bai, delle fiamme che bruciano nel finale il laboratorio). Significativa una delle sequenze iniziali in cui il nipote versa una cisterna di tinta rossa per colorare le stoffe nel grosso bacino d'acqua del laboratorio: il regista mostra volutamente la tinta che si diffonde nell'acqua come se fosse sangue, non a caso un crudele destino farà in modo che quel bacino diventi il luogo in cui troveranno violenta ed atroce morte i due protagonisti maschili. Un film straordinariamente intenso ed appassionante, in cui la forma, smagliante e sbalorditiva, ed il contenuto, potente e vigoroso, raggiungono un'armonia lodevole, mirabile e compiuta (decisamente meglio che nel comunque già riuscito "Sorgo Rosso", dove però qua e là c'era la sensazione sospetta di un facile simbolismo cromatico ai limiti dell'accademia e del puro manierismo). Zhang, al solito, non rinuncia ad una aperta e tagliente critica della pesante e dolorosa condizione femminile nella arcaica ed immutabile società cinese degli anni venti, dalla cieca ipocrisia e dall'oscurantista rigidità, dove il rispetto di spesso vuote tradizioni (per esempio la processione funebre che deve essere fermata dai parenti in lutto per ben 49 volte) ha tuttavia un peso enorme: la donna è sottomessa ad ogni umiliazione e prevaricazione da parte dell'uomo che comanda con prepotenza ed arroganza. "Le mie bestie sono contente quando le cavalco e le picchio: tu sei come loro, sei mia e mi obbedirai. Non ti ho comprata perché tu stia a dormire. Dammi un erede e diventerò il tuo servo. Se non lo fai, ti ammazzerò a frustate!": sono inequivocabili le parole e le azioni del selvaggio e barbaro Jin-Shan che tratta la moglie proprio come uno dei suo animali. In un'altra scena molto toccante e poetica, in campagna, Ju Dou, raggiunta da Tian Quing, tenta invano di fargli credere che i segni evidenti che porta sul corpo siano stati causati da un'occasionale caduta: da lontano nel frattempo si sentono le urla di un maiale che il padrone sta sgozzando. Ju Dou dice malinconica, con le lacrime agli occhi, pensando anche alla sua condizione: "Quel maiale sta piangendo per la sua sorte". Notevole poi anche la descrizione quasi documentaristica, come accadeva in "Sorgo rosso" per la preparazione della grappa, dell'attività lavorativa dei protagonisti tra le stoffe appena tinte, stese ad asciugare sulle travi da cui filtra la luce del sole ed i meccanismi artigianali di macchine antiche, quasi medioevali che si mettono in moto. Il vero valore aggiunto del film però è la figura inquietante, malefica ed inedita di Tin Bai, autentico angelo della morte. Tin Bai è fin da piccolo molto più simile, nel suo atteggiamento solitario ed inquieto, al duro e dispotico padre putativo (l'unico che infatti chiama papà - e la sequenza in cui i due amanti scoprono increduli, quasi terrorizzati, il vecchio Jin-Shan abbracciare sorridente, entusiasta e compiaciuto, come se fosse proprio, quel loro figlio che in passato aveva addirittura tentato di uccidere è spiazzante, in un certo senso angosciante) che non al docile e sensibile Tian Quing. La svolta disperata, cupa, spietata, quasi horror, di questa dolente storia di amor fou è dovuta alla sua presenza silenziosa, enigmatica, sfuggente, misteriosa, impalpabile che alla fine purtroppo si rivelerà invece in tutta la sua efferata, accecata ed indemoniata crudeltà. Un personaggio delineato con pochissimi tratti, muto, impenetrabile, dal tremendo sguardo assassino, carico di odio e di rancore (terrificante la sequenza in cui insegue furibondo per i vicoli del paese, con un'arma da taglio in mano, un contadino che spettegolava con amici sulla relazione tra Ju Dou e Yang Tian Quing), incapace di sorridere (se non nella scena, assai disturbante, in cui si lascia andare ad una risata isterica ed incontrollata, mentre vede l'anziano Yang Jin-Shan annegare impotente nel bacino d'acqua) e destinato ad imprimersi indelebilmente nella memoria dello spettatore. Al solito superba e struggente Gong Li, eroina umiliata e ferita, vitale ed appassionata, colpevole e sfortunata che cerca invano di ribaltare le sorti del suo amaro destino e di migliorare la propria condizione ("Brutto paralitico tu non mi comandi più. Toccati in mezzo alle gambe, che ti è rimasto: niente!" urla sprezzante al marito), ma che infine sarà sconfitta da una sorte avversa, costretta a vivere in un mondo in cui per la donna non sembra esserci alcuna possibilità o speranza di felicità ed amore. Il suo sguardo smarrito, incredulo, sofferto, implorante, mentre il fuoco divora vetusti macchinari di legno, ciotole di colori e stoffe preparate, mandando definitivamente in frantumi il sogno tanto agognato di una nuova e più serena vita è da applausi. Splendido infine, tra i tanti, un dialogo tra Ju Dou e l'amato Tian Quing: "Se ti chiamasse davvero papà, tu potresti rispondere?" domanda la donna. Una semplice domanda capace però di rivelare in tutta la sua essenzialità la difficile, strana e straziante condizione di un padre, impossibilitato dalle circostanze dal poter riconoscere ed amare davvero il proprio figlio. Ed infatti alla domanda di Ju Dou il silenzio di Tian Quing varrà più di ogni parola. Il coregista Fengliang Yang è un funzionario del ministero della Cultura, messo al fianco di Yimou come inutile garante dell'ortodossia di un film che comunque non è stato mai distribuito in Cina. Nomination all'Oscar come miglior film straniero, ma vittoria al film svizzero "Il viaggio della speranza" di Xavier Koller, che sconfisse anche il nostro Gianni Amelio di "Porte aperte" e soprattutto "Cyrano de Bergerac" di Jean Paul Rappeneau con Gérard Depardieu. In Concorso al Festival di Cannes del 1990 dove in gara, tra gli altri, c'erano anche Clint Eastwood ("Cacciatore bianco, cuore nero"), Ken Loach ("L'agenda nascosta"), Alan Parker ("Benvenuti in paradiso"), Bertrand Tavernier ("Daddy Nostalgie"), Jean Luc Godard ("Nouvelle vague") e Giuseppe Tornatore ("Stanno tutti bene"). La giuria presieduta da Bernardo Bertolucci premiò "Cuore Selvaggio" di David Linch. Trionfatore infine al Valladolid International Film Festival.
Voto: 8

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