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La terra dell'abbastanza

Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film

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La recensione su La terra dell'abbastanza

di Peppe Comune
7 stelle

Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) sono due ragazzi della periferia romana. Frequentano la scuola alberghiera e il massimo della loro aspirazione è quella di diventare dei bartender. Una sera, mentre sono in auto a parlare del più e del meno, investono accidentalmente un uomo che muore sul colpo. I ragazzi scappano e decidono di non denunciare l’accaduto. Grazie al padre di Manolo (Max Tortora), si scopre che la persona che hanno buttato sotto con la macchina era un pentito del clan locale dei Pantone. Un tragico evento si trasforma così in un’occasione propizia, perché i due ragazzi intendono presentarsi dal boss (Luca Zingaretti) come gli esecutori materiali dell’infame da lungo tempo ricercato e chiedere di essere affiliati al clan, pronti a fare qualsiasi cosa gli venga chiesto. Dal loro punto di vista, hanno forse trovato una scorciatoia molto propizia per dare una svolta definitiva alla loro magra esistenza.

 

Andrea Carpenzano, Matteo Olivetti

La terra dell'abbastanza (2018): Andrea Carpenzano, Matteo Olivetti

 

 

“La terra dell’abbastanza” di Fabio e Damiano D’Innocenzo è una storia di periferia che odora di degrado urbano, di precarietà emotive facilmente ricattabili, di abitudine all’abbandono. Un film che erge a protagonista la marginalità sociale intesa come la strada più diretta per incamminarsi lungo la strada della violenza. Come spesso accade in questi tipi di film, le pratiche illegali e la voglia di tenerezza trovano posto nel corpo di uno stesso ragazzo, divise da una linea tanto sottile da farle essere come due facce indistinguibili di una stessa medaglia, due modi di essere legati da uno stretto rapporto di contiguità emotiva. Tale da riflettere quanto c’è di più concreto dietro le vite malmesse di questi ragazzi di strada :  la prossimità contingente con il mondo del malaffare e il desiderio legittimo di affrancarsi da una vita di stenti. I fratelli D’Innocenzo giocano di sponda con questa sorta di inevitabile connubio esistenziale, proponendosi di dare un ulteriore contributo filmico all’analisi di un fenomeno sociale abbondantemente trattato al cinema. Usando un linguaggio diretto, nitido, teso a conferire alla finzione cinematografica un taglio volutamente verista. Ricalcando un po’ lo stile di Claudio Calligari, della cui poetica non trasmettono certo la tensione febbrile e l’obliquità pasoliniana, ma conservano l’adesione sincera e minuziosa accordata alle sorti dei due giovani protagonisti. La stessa rinvenibile in “Non essere cattivo”, l’ultimo bellissimo film del compianto autore romano.

La terra dell’abbastanza è una terra di confine aperta a tante prospettive di vita, corrisponde alle tante periferie che circuiscono le grandi metropoli del mondo, spazi amorfi fatti oggetti dell’incuria e dell’indifferenza generale, ricettacoli naturali di ogni germe antisociale. Luoghi predisposti ad ospitare ogni forma di contraddizione possibile : amore e odio, arte di arrangiarsi e cultura dell’accumulo, difesa del senso profondo dell’amicizia e fascinazione per la violenza anaffettiva, etica solidaristica ed estetica criminale, desiderio di emergere socialmente e aspettative rimaste inevase. Perché, da un lato, in certi territori, l’abbastanza corrisponde al quanto basta per cambiare direzione alla propria esistenza usando gli strumenti che più si hanno a portata di mano. Per “svoltare definitivamente”, per uscire dall’anonimato coatto e confrontarsi con il mondo di sempre avendo questa volta delle buone carte in mano. Dall’altro lato, l’abbastanza può indicare l’accontentarsi “di quello che c’è” se non si vuole cadere nel vortice delle tentazioni pericolose, se si vuole assaporare il gusto vero del giorno per giorno piuttosto che cedere all’effimero ricatto di voler ottenere tutto e subito. Mirko e Manolo incarnano tutto il peso sociale di questo confine, tutto il suo rappresentare uno spazio che può dare o togliere a seconda delle circostanze, che può indurre ad incamminarsi lungo una strada senza ritorno o a far imbastire con la vita un rapporto che ne contempla tutte le difficoltà del caso. Questi confini spaziali sono dei “non luogo” che lasciano desiderare ai ragazzi che li abitano, non di emanciparsene atraverso il potere della civile consapevolezza, ma di diventarne i padroni allineandosi alla parte prepotente dei rapporti di forza. Un concorso accidentale di cause fortuite li fa entrare in contatto col mondo adulto del malaffare. Loro credono di aver avuto finalmente l’occasione di “svoltare”, di aver accelerato la conquista dell’agognato posto al sole. Quanto, invece, hanno solo detto più presto addio agli anni della loro disordinata innocenza. Ecco, il loro è un percorso non proprio obbligato ma iscritto nella natura “morfologica” del milieu urbano d’appartenenza, un percorso reso possibile perché normalizzato dalla prossimità delle loro esistenze claudicanti con l’esercizio continuato delle pratiche illecite. Fabio e Damiano D’Innocenzo sono stati bravi a raccontarci di questa prossimità con adeguata onestà d’intenti, evitando di lasciarsi ingolosire dal possibile ricatto moralistico di ragionare in termini di necessità piuttosto che di probabilità. Bravi i due giovani protagonisti, facce credibili al servizio di un buon film.              

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